venerdì 28 marzo 2014

La conferenza aversana del cardinale Scola su Speranza ed Evangelizzazione

All'ora dei Vespri del venerdì 14 marzo 2014 la cattedrale di Aversa si è gremita di fedeli e di persone interessate all'ascolto del cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, invitato dal vescovo Angelo Spinillo a tenere una relazione sull'argomento della Speranza che è stato scelto come tema della pastorale annuale per la Diocesi. Religiosi e laici, rappresentanti del clero e dei molteplici uffici diocesani, delle parrocchie e delle aggregazioni culturali, hanno potuto vivere per oltre un'ora una bella esperienza di catechesi e di rigoroso ragionamento teologico stimolanti per la fede e la testimonianza del Vangelo; e quasi tutti hanno potuto personalmente avere uno scambio di parole e di saluti con il cardinale ospite. All'incontro non è mancata l'umile presenza del vescovo emerito Mario Milano.
Il cardinale Scola è stato accolto dal Vescovo Spinillo e dal Vicario Generale d. Francesco Picone ed ha occupato la posizione centrale tra i due al tavolo di lavoro allestito sul piano balaustrato dinanzi all'altare.
Ha introdotto il Vescovo Spinillo che prendendo spunto dalla Spe salvi di Benedetto XVI, ha posto la questione del rapporto tra la speranza vissuta nella quotidianità e la certezza che si fonda sulla fede nella Presenza del Signore. Illustrando il cammino dell'anno pastorale 2013-2014 della Diocesi incentrato sulla tematica “Il Signore è veramente risorto”, ed improntato alla riflessione sulla virtù teologale della speranza, il vescovo ha chiesto al cardinale di illuminare con il suo discorso la problematica della speranza vissuta dall'uomo contemporaneo nelle varie dimensioni della fede e e del pensiero, in Italia in Europa e nel mondo, e di offrire spunti di riflessione utili al “cammino triennale di formazione e di attenzione pastorale nell’orizzonte dell’educare al vivere la fede, la speranza e la carità”. Ed utili a stimolare “la concretezza di quei ‘percorsi di vita buona’ che sono gli ambiti propri del vivere quotidiano dell’umanità di questo tempo: Lavoro e festa, Cittadinanza, Affettività, Fragilità e Tradizione”.
I cardinale Scola esordisce con un riferimento alla bellezza della Cattedrale aversana e alle “Briciole di Storia” della Diocesi che egli ha potuto raccogliere; ed umilmente afferma di non sapere se sarà in grado di rispondere nelle aspettative e negli orizzonti proposti dal vescovo nei 50 minuti che egli prevede di assegnare al suo intervento. E quindi magistralmente si impegna nella sua riflessione umanistica-pastorale sulla speranza prendendo e sviluppando spunti interessanti ed efficaci dalla letteratura, dalla filosofia, dalla teologia, dalla Sacra Scrittura e dal Magistero della Chiesa. Umanità e Santità, nuovo umanesimo e ricerca di Dio, sono da lui proposti come prerogative e dimensioni del dialogo che porta i credenti a vivere la speranza nella testimonianza e nella relazione personale con il Signore e con i fratelli.
Il suo discorso è un crescendo di esplicitazioni e di approfondimenti che si articola nei punti che egli formalmente intitola: 1. Speranza virtù bambina; 2. Gesù Cristo nostra speranza; 3. Testimoni di speranza; 4. La speranza nell'incontro del nostro fratello uomo; 5. La speranza genera un nuovo umanesimo; 6. Raccontare Gesù nostra speranza.
Sul portale della Diocesi il discorso del cardinale Angelo Scola è riportato per intero: lo trascriviamo per comodità di lettura.


Intervento di S. Em.za Angelo Card. Scola
Arcivescovo di Milano
CATTEDRALE DI AVERSA
14 MARZO 2014
1. Speranza, “virtù bambina”
In un articolo pubblicato quasi trent’anni fa su La Stampa e significativamente intitolato Chi ci libererà dalla barbarie. I tamburi del profeta, l’inquieto e pessimista intellettuale Guido Ceronetti scriveva: «Tuttavia aspettare qualcuno che sia in assoluto altro, uno Straniero, un Esiliato che abbia in comune con noi soltanto la forma umana, o neppure quella: la parola soltanto, la parola davanti a cui niente resiste, e la mano, ma guaritrice, esercitata a guarire toccando, è una interessante vendetta, un’ombra, se non la carne, di un rimedio, un modo per attenuare il dolore della piaga civile, per consolare il gemito insistente del cuore indecentemente oltraggiato. Così ogni mattino mi dico: dovrà pur venire qualcuno, forse oggi stesso lo sapremo, scoprendo qualcosa di cambiato in una delle solite facce che s’incontrano, e venendo disperderà con un soffio, prima di ogni altra cosa, questa verminaia terra di poteri senza legge che ci intortiglia [attorciglia]» .
Sono parole che mantengono una attualità sconcertante. Non solo perché la situazione sociale può, per certi aspetti, continuare ad essere descritta con espressioni quali “poteri senza legge” – non mi riferisco soltanto alla situazione del nostro Paese, ma soprattutto allo stato in cui versano intere popolazioni del sud del pianeta, in particolare quelle dell’Africa sub sahariana –; le parole di Ceronetti sono attuali perché descrivono, forse con eccessiva durezza, la condizione che rende l’attesa, elementare forma di speranza, umanamente reale e non una pura illusione utopica o addirittura un inganno menzognero.
Perché? Perché l’affermazione di Ceronetti ci fa comprendere che la speranza non può semplicemente derivare dal cambiamento delle circostanze: è troppo poco. Essa, invece, s’identifica con la venuta di qualcuno. Non siamo noi a poterci ridare speranza da soli, non siamo noi a salvarci con le nostre forze. Deve essere veramente un altro a farlo per noi. E parlare di un altro significa individuare il terreno su cui può fiorire la speranza: essa è sempre frutto dell’incontro tra un io e un tu. Non c’è speranza per chi non lascia spazio all’altro. Siamo ben consapevoli che questo lasciar spazio all’altro non sia così comune nel nostro mondo post-moderno nel quale sempre più si espande un individualismo narcisista. Il narcisista, infatti, è colui che prolunga per tutta la vita l’inevitabile esperienza della primissima infanzia: guardarsi allo specchio e vedere sé come l’altro. Maturità domanda, invece, di lasciar essere l’altro come altro. Il narcisismo tronca alla radice ogni speranza, perché non “vede” l’altro e finisce per generare solitudine cattiva. Allora la vita pesa, come ha genialmente intuito Dante condannando i superbi a camminare schiacciati da enormi massi sulle spalle.
Ma l’altro che aspettiamo – ecco il secondo spunto offerto dal nostro autore – deve avere forma umana… Devo poterlo riconoscere. Non c’è possibilità di sperare se non si incontra, nella trama di circostanze e di rapporti che investono la nostra esistenza, quella presenza che «disperderà con un soffio [ciò] che intortiglia» perché rende capaci di affrontare la realtà simultaneamente con meraviglia e serietà. Come fanno i bambini.
Péguy afferma: «La speranza è virtù bambina, che prende per mano la fede e la carità» .
La speranza per l’Europa, e più in generale per il mondo contemporaneo – al di là di tutte le analisi e le proposte che possono essere sbandierate dai mass media, si gioca a questo livello. L’Europa avrà speranza se sarà abitata da uomini e donne di speranza.
Sulla base di questa decisiva premessa si può capire come parlare di speranza conduca a riflettere sulla nuova evangelizzazione tanto necessaria per le Chiese di antica origine. Penso alla mia Milano ma anche alla vostra gloriosa Chiesa le cui radici risalgono, mi pare, intorno al 1022. È qui che possiamo riconoscere tutta la portata dell’invito ad una Chiesa in uscita, come ama ricordarci il Santo Padre .
2. «Gesù Cristo, nostra speranza» (1Tm 1,1)
La Prima Lettera a Timoteo definisce «Gesù Cristo nostra speranza». Quale esperienza facciamo di questa realtà? Partiamo un’altra volta dall’esperienza umana comune. Ci aiuta Kafka che nel romanzo Il castello scrive: «Colui che non abbiamo mai visto, che però aspettiamo sempre con vera bramosia [Colui], che ragionevolmente però è stato considerato irraggiungibile per sempre – eccolo qui seduto» .
Qui seduto: proprio colui che si riteneva irraggiungibile, tanto è altro, lo incontriamo seduto accanto a noi. Questo è il cristianesimo: la speranza fattasi carne per accompagnare da vicino la vita degli uomini. Pensiamo all’esperienza di sua madre, degli apostoli, dei due di Emmaus.
Recentemente Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, ha voluto ribadire con forza una delle linee maestre dell’insegnamento di Benedetto XVI. Scrive il Papa: «Non mi stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva”» . Si tratta, come sappiamo, della citazione dell’incipit dell’enciclica Deus caritas est. L’affermazione di Benedetto XVI ci dice che all’origine della speranza c’è l’incontro con Dio che sempre ci precede: Gesù Cristo è la nostra speranza.
È essenziale non perdere mai di vista né dare per scontata quest’origine gratuita della speranza. Infatti, nelle nostre società in transizione all’avvio del terzo millennio, sotto le più diverse espressioni – incluse quelle contraddittorie e violente – l’uomo contemporaneo è messo alla prova da una domanda radicale: «La grande sofferenza dell’uomo è proprio questa: dietro il silenzio dell’universo, dietro le nuvole c’è un Dio o non c’è? E, se c’è questo Dio, ci conosce, ha a che fare con noi? Questo Dio è buono, e la realtà del bene ha potere nel mondo o no? (…) È una realtà o no? Perché non si fa sentire?» , così Benedetto XVI. Il dubbio che la solitudine possa essere la parola definitiva sull’umano destino porta gli uomini a cedere alla tentazione di una “desertificazione spirituale”, che conduce alla «diffusione del vuoto» .
Questo non è pessimismo ma realismo, tanto più che per la tradizione biblica il “deserto” è l’ambito privilegiato dell’“incontro” e del “cammino” del popolo col Dio vivo che manifesta il suo potere salvifico compiendo meraviglie.
Come far fronte ad una tale situazione? All’inizio dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione Benedetto XVI ha risposto alla domanda, indirizzando il nostro sguardo e il nostro pensiero a quello che possiamo chiamare l’antefatto che dà vita alla Chiesa: «Dio ha parlato, ha veramente rotto il grande silenzio, si è mostrato, ma come possiamo far arrivare questa realtà all’uomo di oggi, affinché diventi salvezza? (…) Solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste è la condizione della nascita della Chiesa (…) Dio è l’inizio sempre» .
Un’indicazione fondamentale affinché la nuova evangelizzazione riesca a ridare speranza all’Europa e più in generale alla contemporanea famiglia umana potrebbe essere formulata in questo modo: la precedenza è sempre di Dio, Egli parla ed opera. La Chiesa, ciascuno di noi, può solo co-operare con Lui.
3. Testimoni di speranza
Mi pare che proprio il verbo “co-operare” descriva adeguatamente il compito dei cristiani nella nuova evangelizzazione, la loro responsabilità di fronte alla speranza.
Se l’origine permanente e insuperabile è sempre la precedenza di Dio, «dall’altra parte questo Dio, che è sempre l’inizio, vuole anche il coinvolgimento nostro, vuole coinvolgere la nostra attività, così che le attività sono teandriche, per così dire, fatte da Dio, ma con il coinvolgimento nostro e implicando il nostro essere, tutta la nostra attività» . L’espressione usata dal Santo Padre e la spiegazione che egli ne ha dato sono inequivocabili: le attività della Chiesa sono “teandriche”, cioè divino-umane, non perché “fatte da Dio e da noi”, ma perché «fatte da Dio con il coinvolgimento nostro». In questo modo Benedetto XVI ci aiuta a cogliere che il carattere divino-umano dell’evangelizzazione non implica una “parità” di compiti o di protagonismo tra Dio e i cristiani: la nostra attività avrà sempre la forma mariana della risposta, della collaborazione attraverso l’assenso, cioè dell’obbedienza della fede. Solo Dio è il protagonista, la Chiesa è co-agonista. L’ambito in cui si può percepire con maggior chiarezza questo essere co-agonista proprio della Chiesa è la celebrazione liturgica. In essa, infatti, il popolo cristiano è di fronte al Signore sempre in posizione mariana, la posizione di Maria che coopera con il suo fiat all’iniziativa di Dio che la precede. Questa “qualità responsoriale”, che emerge con chiarezza nella liturgia, è caratteristica di ogni espressione della vita della Chiesa.
Il nome proprio di questa “qualità responsoriale” propria della vita cristiana è testimonianza (autoesposizione). Mettere a tema la testimonianza come forma specifica dell’esistenza del cristiano è la strada per parlare della nuova evangelizzazione quale fonte di speranza per l’Europa.
Tuttavia il termine, a prima vista chiaro, viene troppo spesso sottoposto a riduzioni. Per esempio una testimonianza che si limiti alla sola, pur importante, coerenza del singolo con alcuni principi di comportamento, non risulta convincente. Il necessario “buon esempio” non basta per renderci testimoni autentici. Si è effettivamente testimoni quando «attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica. Si può dire che la testimonianza è il mezzo con cui la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale. Nella testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo. Gesù stesso è il testimone fedele e verace (cf. Ap 1,5; 3,14); è venuto per rendere testimonianza alla verità (cf. Gv 18,37)» .
Proviamo, quindi, ora a descrivere sinteticamente tre caratteristiche della testimonianza adeguatamente intesa.
a) Mi preme molto sottolineare che essa non è qualcosa di aggiunto alla vita di ciascuno di noi, un’attività che si sovrappone al “mestiere di vivere”, rendendolo ulteriormente faticoso. La testimonianza coincide invece con una vita cristiana matura, che si esprime e si gioca attraverso quei cardini dell’esistenza che sono gli affetti, il lavoro e il riposo . Il testimone è consapevole della responsabilità missionaria indicataci dall’Apostolo: «A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,27).
b) La testimonianza ci fa interlocutori di tutti. Non c’è niente e nessuno che possa o debba essere estraneo ai seguaci di Cristo. Tutto e tutti possiamo incontrare, a tutto e a tutti siamo inviati. E questo perché ciascuno di noi, in quanto segnato dalle situazioni della vita comune, è nel mondo. Siamo, ci ha ricordato Papa Francesco, «chiamati a promuovere la cultura dell’incontro» . Non dobbiamo pertanto costruirci dei recinti separati in cui essere cristiani. È Cristo stesso a porre la sua Chiesa ed i figli del Regno nel mondo reale delle circostanze comuni a tutti gli uomini e a tutte le donne.
c) Abitando il mondo i discepoli di Gesù sono pieni di attenzione e di stupore, perché il loro sguardo non si ferma alla superficie talora sconcertante delle cose, non si lascia impressionare dalla cronaca spesso enigmatica e tragica, dalla zizzania, ma riconosce le tracce dell’opera compiuta da Dio in Gesù Cristo. Il Seminatore infatti non si stanca di spargere seme buono. Dovunque arrivi, il discepolo sa di essere preceduto e atteso da Gesù. L’attenzione, di conseguenza, non va posta sul nostro “fare”, ma su ciò che il Signore suscita. Al cuore della crisi di speranza del nostro tempo c’è spesso l’aver smarrito, o almeno sbiadito, la coscienza della gratuità dell’incontro con Cristo, che sempre ci precede e ci aspetta.
4. Con speranza all’incontro del nostro fratello uomo
Le domande dell’uomo contemporaneo sul senso della vita, lette a partire dalla situazione delle Chiese in Europa, ci conducono ad un interrogativo che ha il sapore di una scommessa: chi vuole essere l’uomo del terzo millennio? Come può vivere all’altezza dei propri desideri, ben consapevole delle inedite possibilità di cui dispone? Come può evitare di “perdere se stesso” nel tentativo di guadagnare il “mondo intero”?
Da qui sorge una questione decisiva: da che cosa è caratterizzato il contesto sociale in cui siamo chiamati a trasmettere la speranza in questo inizio del terzo millennio? Anche in forza del processo di secolarizzazione, dobbiamo oggi fare i conti con una “società plurale” in cui convivono soggetti portatori di mondovisioni spesso assai differenti tra loro e potenzialmente in conflitto: si pensi al fenomeno dell’indifferenza sociale per il quale nello stesso tempo tutto è diverso e tutto è uguale, a quello della società della rete (in riferimento allo strabiliante sviluppo dei mezzi di comunicazione), al processo di meticciato di civiltà e di culture, nonché all’imponenza della capacità manipolatoria del reale da parte delle tecnoscienze. In tale contesto la domanda di speranza, legata ultimamente al rapporto costitutivo dell’uomo con la realtà e pertanto ultimamente inestirpabile, diventa domanda di senso (significato e direzione), di libertà e di felicità, che chiede di essere intercettata ed interpretata.
Vediamo tre condizioni di questa decisiva ed universale domanda di senso come espressione di speranza:
a) con tale domanda si confronta ogni giorno il cristiano. E non tanto perché l’interrogativo interessa i suoi fratelli uomini, quanto piuttosto perché si tratta della domanda di senso che la vita pone innanzitutto a lui. Di fronte ad essa l’incontro con la persona di Gesù Cristo documenta come Dio, entrando nella storia, voglia fecondare con la sua presenza rinnovatrice tutta la realtà. Anche oggi questa novità di vita può essere riconosciuta sui volti degli uomini e delle donne trasformati dalla fede: i “cristiani” sono coloro che, per grazia, hanno ricevuto in dono l’esistenza stessa di Gesù e Lo seguono nel quotidiano. Si profila quella che san Paolo chiama «una creatura nuova» (2Cor 5,17). La consapevolezza di tale grazia conduce tutti i fedeli, che l’hanno incontrata nelle diverse forme di realizzazione della Chiesa, a proporre il rapporto con Gesù, verità vivente e personale, come risorsa decisiva per il presente e per il futuro. Il testimone inevitabilmente racconta Gesù e ciò che Gesù opera in lui.
b) Alla domanda di senso come espressione di speranza non si risponde con un progetto, tanto meno con un calcolo. Pieni di gratitudine i cristiani intendono “restituire” il dono che immeritatamente hanno ricevuto e che, pertanto, chiede di essere comunicato con la stessa gratuità. Come? Attraverso lo snodarsi della vita della comunità ecclesiale, che persevera nel pensiero di Cristo, nella comunione sincera, nella celebrazione eucaristica, in una piena apertura a tutta la realtà. Vivendo in questo modo i cristiani possono, con franchezza e gioia, senza alcun artificio o forzatura, proporre l’incontro con Gesù Risorto in ogni momento e dire a chiunque: «Vieni e vedi» (Gv 1,46).
c) Nella comunione ecclesiale così intesa, ogni diversità viene pienamente valorizzata perché fa brillare quell’unità per cui Gesù ha pregato affinché «il mondo creda» (Gv 17,21). Infatti, quando la comunione non è un optional, ma diventa concreto metodo di vita, le diversità arricchiscono ed edificano, suscitando il fascino della proposta cristiana in ogni ambito dell’esistenza quotidiana.
Cosa implica questo uscire da se stessi per portare a tutti Gesù come speranza per ogni uomo e ogni donna? Anzitutto la necessità di rischiare la propria libertà, di esporre se stessi. E proprio in ciò consiste la testimonianza.
Il testimone autentico però rinvia a Cristo, sommamente amato, non a sé. Per questo non mortifica la libertà dell’altro, non è schiavo dei risultati, non isola e non divide. Il testimone fa crescere la libertà da se stessi, dal proprio progetto, dall’immagine di sé che si sogna. Il testimone impara a conoscere in modo appropriato la realtà, ne scopre, sulla propria pelle, la verità e la comunica ai fratelli. Cristo crea amicizia, genera comunione.
Guardare a Maria Vergine, a san Giuseppe e a tutti i santi ci fa capire, meglio di ogni definizione, quale sorgente di senso e perciò di speranza sia la testimonianza integralmente intesa. «Contemplerò ogni giorno il volto dei Santi per trovare conforto nei loro discorsi». Torna l’importanza del racconto (Didachè).
Il “cattolicesimo popolare” che caratterizza la nostra nazione è chiamato pertanto a radicarsi più profondamente nella vita degli uomini attraverso l’annuncio esplicito della bellezza, della bontà e della verità di Gesù Cristo all’opera nel mondo: «Nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto la Chiesa perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» .
5. La speranza genera un nuovo umanesimo
Anche all’inizio di questo terzo millennio Gesù Cristo è feconda radice di un nuovo umanesimo di cui tanto sentiamo il bisogno. L’incontro gratuito con Cristo si rivela così in tutta la sua corrispondenza all’umano desiderio di pienezza. A tal punto che la necessaria verifica dell’autenticità della fede consiste proprio nella scoperta che essa “conviene” al cuore dell’uomo.
Nel contesto della società plurale che domanda nuovo umanesimo i cristiani non cercano la vittoria della propria parte. Al di là degli errori commessi lungo la storia essi accettano ciò che Dio concede alla famiglia umana. Possono essere, di volta in volta, maggioranza costruttiva o minoranza perseguitata, ma quello a cui sono chiamati è solo l’essere presi a servizio del disegno buono con cui Dio accompagna la libertà degli uomini.
In questi convulsi tempi di cambiamento le dimensioni della comune ed elementare esperienza umana – affetti, lavoro, riposo, a cui si aggiungono, come ci ha insegnato il Convegno di Verona (2006), gli aspetti della fragilità, della tradizione e della cittadinanza di cui non abbiamo qui il tempo di parlare – provocano tutti i cristiani ad una verifica non più rinviabile, perché a tutti gli uomini si documenti Cristo come nostra speranza.
a) Il Vangelo visita gli affetti e li porta a compimento proponendo il comandamento dell’amore, che da affettivo diventa effettivo: «La fede fa comprendere l’architettura dei rapporti umani perché ne coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio, nel suo amore» . Il “per sempre” e la fecondità dell’amore – nel matrimonio, inteso come unione indissolubile e aperta alla vita di un uomo e una donna, e nella verginità consacrata – è quindi il compimento del bisogno e del desiderio di ciascuno di essere amato e di amare.
b) I cristiani hanno la responsabilità di portare la speranza anche nel campo del lavoro, facendosi eco dell’apprezzamento di Dio per l’intraprendenza e la laboriosità umana, praticando la giustizia e la solidarietà come virtù irrinunciabili ed esercitando la propria professione come una vocazione. Hanno il compito di vivere nel quotidiano ambiente di lavoro come discepoli che non nascondono la loro fede, ma la condividono con gli altri fratelli e ne offrono testimonianza a tutti. Cosa ci insegna la figura di don Peppe Diana, che state commemorando a 20 anni dalla sua uccisione, se non che i cristiani sono chiamati a impegnarsi con maggior vigore ed energia in quell’eminente forma di carità che è la politica, intesa in senso ampio e pieno?
c) I cristiani hanno infine la responsabilità di essere uomini di speranza anche nell’ambito del riposo, tante volte confuso con il semplice svago. Conoscono, infatti, che la condizione più desiderabile per il riposo è la comunione, quella grazia di sapersi a casa nella relazione buona che lo Spirito di Dio sa costruire facendo dei molti una cosa sola. Perciò la dimensione cristiana del riposo è la festa e il cuore della festa è la celebrazione eucaristica. Viene così offerta la possibilità non solo di staccare dal lavoro e di interrompere la fatica, ma di una rigenerazione che rende la persona pronta per ogni opera buona.
Insieme alla novità cristiana, la domenica eredita tutto il valore del sabato biblico e ritma il tempo con l’irrinunciabile memoria delle opere di Dio e della sua presenza: è quindi il giorno della lode, della intercessione, della speranza, della condivisione e della letizia.
6. Raccontare Gesù nostra speranza
Se Gesù è venuto per portare agli uomini la speranza, tocca ai cristiani che per grazia Lo hanno incontrato «raccontare Gesù»: è il titolo di un prezioso libretto del giovane cardinale di Manila, Luis Antonio Tagle. Dar testimonianza a Cristo e di Cristo, Verità vivente e personale, di fronte alla sempre risorgente pretesa di «incanalare Cristo, quest’acqua selvaggia nelle turbine dell’umanità a vantaggio di quest’ultima» . La «ferita inferta alla storia del mondo con l’apparire di Cristo continua a suppurare» . Cristo, invece, continua a tener desto per il nostro bene l’inquietum cor di cui parla Sant’Agostino.
Della compagnia di Dio nessuno dovrà avere timore. Soprattutto se i cristiani, resistendo alla tentazione dell’egemonia ed attingendo al metodo testimoniale di Gesù, sapranno fare della loro differenza specifica la via di una proposta umile e tenace. Incontreranno in tal modo l’insopprimibile anelito di speranza degli uomini, che è sempre desiderio di Dio anche se talora manifestato in modo confuso e contraddittorio. L’anelito di speranza, infatti, è come la fenice. Rinasce sempre dalle proprie ceneri. È lo stesso Dio a farlo rinascere perché Egli «è più esigente di noi per la nostra felicità… [noi invece] saremo sempre avari nella nostra speranza. Le eresie sono frutto dell’impotenza a sperare il più» .
Nella testimonianza e nel racconto il cristiano condivide di persona almeno un frammento del desiderio di pienezza che non si spegne mai del tutto nell’uomo, ridesta nel suo cuore la speranza e, quindi, la nostalgia di Dio, destino dell’uomo, sorgente e culmine della sua felicità. Questa riuscita umana ha un nome semplice e luminoso. Si chiama santità.

Infatti il santo che noi tutti possiamo essere, altro non è che un uomo riuscito.


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