Il
fatto che alcune figure sacerdotali diventano simboli esemplari
validi per l'intera comunità ecclesiale di una diocesi è legato ad
un processo storico-culturale nel quale assume significati luminosi
la testimonianza personale che esprime l'identità dell'opera svolta
nella fede con il dono della vita vissuta per realizzarla.
La
storiografia locale può indicare molte di queste figure presenti
nella storia antica e recente della diocesi di Aversa. Nel merito si
hanno a disposizione libri, studi e ricerche interessanti. Basti
citare l'antologia Cultura e religiosità ad Aversa nei secoli
XVIII-XX di don Gaetano Capasso, le monografie del Canonico Roberto
Vitale, gli studi storici e religiosi di Luciano Orabona e di Alfredo
di Landa, i libri di Alfonso D'Errico sul clero meridionale e
diocesano, le monografie del Centro Missionario di Aversa curate da
Nicola Giallaurito, le ricerche pubblicate dell'Istituto di Studi
Atellani, le ricerche dell'Istituto di Scienze Religiose e gli studi
promossi dall'Archivio Diocesano di Aversa diretto da Ernesto Rascato
Una
caratterizzazione particolare, legata alla contemporaneità delle
dimensioni più espressive dell'esperienza ecclesiale della comunità
diocesana, è assunta dalla triade sacerdotale composta da padre
Mario Vergara missionario martire del PIME, da don Salvatore Vitale
parroco fondatore del Santuario Mia Madonna Mia Salvezza, e da don
Giuseppe Diana parroco a Casale di Principe. La loro opera e la loro
testimonianza si sono perfettamente identificate con la loro vita
sacerdotale, ed hanno assunto valori esemplari per l'intera diocesi.
Padre Mario Vergara è nominato beato e ben rappresenta lo spirito
della missionarietà 'ad gentes' della Diocesi; don Salvatore Vitale
è Servo di Dio e ben rappresenta l'opera pastorale legata alla
devotio antica e alla carità necessaria nei confini rurali
del territorio diocesano che fu visitato anche dal papa Giovanni
Paolo II e dal cardinale Joseph Ratzinger; don Giuseppe Diana è al centro
di convergenze simboliche che pongono la sua figura a rappresentare,
a partire dal livello diocesano e con estensioni più generali a
livello nazionale ed ecclesiale, istanze significative per la
testimonianza della la fede e per l'etica sociale vissuta come
superamento del degrado civile e della criminalità.
La
relazione della comunità diocesana con l'esemplarità di queste
figure sacerdotali le consente di riflettere sia sulla sua identità
spirituale e sia sulla sua identità storica-territoriale, e di
prendere coscienza di un percorso da loro illuminato, che s'inoltra
per le difficoltà e le crisi ma che la porta a vivere sempre più
intensamente le istanze del Vangelo e della civiltà cristiana.
Per
padre Mario Vergara, martire in Birmania, la Diocesi si muove nella
preghiera e nella preparazione spirituale per il giorno della
beatificazione che sarà celebrato il 24 maggio prossimo.
Di
don Salvatore Vitale la Diocesi raccoglie i frutti spirituali
dell'opera di lui che continua con quella dei confratelli e delle
consorelle della Piccola Casetta incentrata al Santuario mariano.
Per
don Giuseppe Diana la Diocesi ha lanciato un programma di preghiere e
di iniziative legato al ventennale dell'uccisione (19 marzo1994 - 19
marzo 2014) e realizzato intorno alla Parrocchia di San Nicola di
Casale di Principe che è oggi guidata da don Franco Picone. Sul
portale della Diocesi e sul portale dedicato all'opera di don Diana
sono ampiamente illustrati il programma religioso e le numerose
iniziative civili e culturali connesse alla celebrazione del
ventennale. Tra queste ultime si contemperano anche la fiction
proposta dalla RAI sulla figura di don Giuseppe interpretata da
Alessandro Preziosi, la pubblicazione di libri commemorativi ed
educativi, e i riferimenti dell'associazione Libera di don
Ciotti che hanno coinvolto il 21 marzo 2014 la presenza di Papa
Francesco alla veglia romana per le vittime di mafia.
Il
programma religioso alla Parrocchia di San Nicola ha previsto due
eventi significativi: per il giorno 18 marzo 2014 il ritiro
spirituale del Clero diocesano con l'ascolto della relazione "Presbiteri in una terra che cerca speranza” del cardinale
Crescenzio Sepe; e per il giorno 19 Marzo 2014, solennità di San
Giuseppe, la celebrazione della Santa Messa mattutina con il vescovo
Angelo Spinillo.
Ambedue
questi eventi hanno dato rilevanza spirituale all'icona sacerdotale
di don Giuseppe Diana.
Il
cardinale Sepe ha sviluppato il suo discorso quasi completando, nella
chiave teologica 'cristocentrica' e nella valorizzazione della
testimonianza 'presbiterale' di don Giuseppe Diana, i contenuti che
egli aveva già proposti nella lettera alla Diocesi “Il sangue e la
speranza” in occasione del suo insediamento come arcivescovo di
Napoli, e che in qualche modo aveva pure riferito nella sua lettera
“Per amore del mio popolo” a conclusione del Giubileo della
Città:
“La
città necessita
di simboli capaci di rappresentare il legame tra il dolore e il
riscatto […] Noi cristiani sappiamo che nell'ora più buia della
notte, nel tempo della gioia e della povertà, della grandezza e
della miseria, è possibile annunciare e riorganizzare la speranza
[…] chi ha fede, chi confida nel Signore, non resterà deluso. La
speranza non inganna perché l’amore di Dio è stato effuso nei
nostri cuori attraverso lo Spirito C’è bisogno di imparare a
giudicare gli avvenimenti alla luce della Parola di Dio, liberando la
nostra storia dalla logica dei calcoli umani [….] Cerchiamo sempre
di porre Cristo al centro della nostra vita, facendolo presente
attraverso opere di carità, prendendoci cura dei deboli, afflitti,
poveri, di chi ha bisogno della nostra compagnia, di spezzare il pane
con noi. Perché non c’è speranza senza fede, ma non c’è
speranza senza carità”.
Il
vescovo Spinillo nella sua omelia, che riporto interamente dal
portale diocesano, ha voluto dire il significato della “messa non
celebrata” da don Diana nella mattina del 19 marzo 1994.
Parrocchia
San Nicola di Bari, Casal di Principe, 19
marzo 2014
omelia
del vescovo Angelo Spinillo
Carissimi
Confratelli nel sacerdozio,
carissimi
fratelli e sorelle,
con
voi porgo il più cordiale e grato saluto alle autorità civili e
militari qui convenute, l’annuale celebrazione della memoria
dell’uccisione di Don Peppino Diana ci raccoglie a celebrare la
santa Eucaristia in questa chiesa in cui egli ha svolto il suo
ministero sacerdotale come parroco. Sentiamo di essere qui, ora,
intorno all’altare a vivere il momento culminante di tutta l’ampia
e feconda serie di iniziative e di attività che tutti, con le nostre
associazioni, con le nostre capacità, in questi ultimi giorni
abbiamo voluto proporre all’intera nostra comunità per ricordare i
venti anni trascorsi dall’uccisione di Don Peppino e soprattutto
per far risuonare ancora quelle parole di vita nuova che la sua
testimonianza viene nuovamente a consegnarci.
Il
ricordo di un’uccisione è sempre drammatico, pesa in maniera
ancora terribile sul cuore e nella memoria di chi in quel tragico
evento è stato direttamente coinvolto o ne è stato personalmente
testimone. Ma pesa anche nella consapevolezza e nei sentimenti di chi
nel tempo, con forme e motivazioni diverse, si è accostato alla
figura don Peppino Diana condividendo l’impegno e la speranza di
associazioni o di gruppi che si ispirano alla sua persona per
annunziare e far crescere nella società la fedeltà alla giustizia,
la ricerca della verità e la ricchezza del bene comune. Il ricordo
dell’uccisione di un uomo, di un prete rimane come un grave peso in
tutti coloro che hanno un senso positivo e buono della vita. Rimane
come una terribile domanda di senso che non trova risposta. Rimane
come un’incredibile negazione della bontà e della bellezza del
vivere. Il ricordo dell’uccisione di un uomo, di un prete rimane
come una schiacciante sconfitta della speranza di giustizia e, di
più, dell’essere insieme uomini sulla stessa terra; rimane come
una disperata negazione dell’essere fratelli nella stessa casa.
Ma
noi non siamo qui soltanto sospinti da un ricordo struggente che
corrode ogni speranza di bene, noi siamo qui, oggi, per partecipare
nuovamente ed ancora all’eucaristia, ad un sacrificio, per
celebrare il mistero di una morte che diventa offerta di vita, per
celebrare il rinascere del bene, l’affermarsi della verità, la
festa dell’essere comunità che spera e cammina. E infatti la
nostra celebrazione della santa messa, questa mattina, come tutte le
altre manifestazioni di questi giorni passati e quelle che si
svolgeranno in questa giornata, porta in sé anche la nota della
gioia che contempla e vive una speranza nuova.
Certamente
questo non significa che il passare del tempo faccia dimenticare la
sofferenza ed il dolore. Piuttosto significa che il tempo, questi
venti anni che sono passati, ci permettono di comprendere meglio la
grandezza del bene vissuto ed offerto da Don Peppino, del suo vivere
come sacerdote della Chiesa, del suo cercare la bellezza e la bontà
della vita, del suo donare attenzione a quella parte di umanità che
egli amava secondo l’insegnamento del Signore Gesù Cristo. E
significa che oggi sappiamo e annunziamo con gioia e con forza che,
illuminati dalla testimonianza di questo nostro fratello e amico
sacerdote, tutti e ciascuno, nel tempo, abbiamo imparato a camminare
con più viva speranza verso scelte ed atteggiamenti degni di
un’umanità vera e capace di amare la vita. La celebrazione di
questa giornata ci invita ad alzare lo sguardo, certi di poter
incontrare la luce.
In
questa prospettiva, oggi la celebrazione della santa eucaristia
sembra realizzare ciò che, con animo turbato e triste, disse il
Vescovo Lorenzo Chiarinelli nell’omelia per la celebrazione
esequiale di Don Peppino. Egli parlò di una domanda che «sale dal
cuore dell’uomo, dal cuore autentico di questo territorio,
soprattutto dal cuore sincero dei giovani» come bisogno e impegno di
poter andare incontro a «quel “regno di verità e di vita, di
santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace” che Cristo
ha iniziato. Ma – si chiedeva il Vescovo – c’è una risposta a
questa domanda? Trova esaudimento questo desiderio? Si, risponde
Gesù. Ma bisogna alzare lo sguardo, mirare lassù… La risposta è
affissa ad una croce: in quel punto ideale si incontrano cielo e
terra, Dio e l’uomo, ed è lì che, come da sorgente, sgorgano
giustizia e fraternità, perdono e pace, perché è lì che dolore e
amore, vittoria e sconfitta coincidono».
Oggi
siamo qui per celebrare, con la certezza della fede, la verità che è
il Cristo, la vita che Egli, uomo nuovo, ci chiama a vivere con Lui.
La
Messa celebrata
In
questo senso, allora, dobbiamo riconoscere che non siamo stati
efficaci nell’annunziare questa celebrazione usando l’espressione
“La Messa non celebrata”. Ci ho pensato dopo.
E’
vero che quella mattina del 19 marzo 1994 Don Peppino Diana venne in
questa chiesa per celebrare la santa messa e fu ucciso prima di
potersi accostare all’altare. Ma è anche vero che la Messa, che
ogni celebrazione della santa eucaristia è la nostra personale,viva
e totale partecipazione all’unico sacrificio del Cristo. Il
sacrificio del Cristo è l’offerta piena e definitiva della sua
vita di Figlio all’amore del Padre per la nostra redenzione dal
peccato, e ogni nostra messa è celebrazione reale del mistero
grande, dell’unico, irripetibile, infinito sacrificio di Gesù.
Per
spiegarci potremmo dire che come ogni dono che facciamo alle persone
che amiamo è espressione vera e concreta di un unico, grande amore,
così le nostre celebrazioni attualizzano, nella varietà dei tempi e
dei momenti della storia, l’unico, grande sacrificio del Figlio di
Dio che ci apre alla comunione con l’infinita misericordia del
Padre. Nell’eucaristia noi, popolo dei credenti, partecipiamo al
sacrificio del Cristo e, in comunione con Lui e per Lui, offriamo la
nostra vita a Dio. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo:
“La vita dei fedeli, la loro lode, la loro sofferenza, la loro
preghiera, il loro lavoro, sono uniti a quelli di Cristo ed alla sua
offerta totale, e in questo modo acquistano un valore nuovo. Il
sacrificio di Cristo riattualizzato sull’altare offre a tutte le
generazioni di cristiani la possibilità di essere uniti alla sua
offerta” (CCC 1368).
Allora,
in quella mattina, Don Peppino ha celebrato la sua offerta; unito al
sacrificio del Cristo ha offerto il suo proprio sacrificio; in
comunione con il Figlio ha presentato la sua vita al Padre per amore
del popolo in mezzo al quale, e per il quale era stato chiamato e
consacrato sacerdote a immagine di Gesù. Chiamato, come Gesù, ad
offrire la sua vita, Don Peppino ha celebrato la sua messa.
In
questa mattina anche noi siamo chiamati, come popolo radunato “da
un confine all’altro della terra” ad offrire a Dio “il
sacrificio perfetto”, il sacrificio del Cristo. Con Don Peppino
anche noi partecipiamo all’offerta piena e definitiva del Signore
Gesù, partecipiamo al suo sacrificio che dona salvezza.
La
nostra celebrazione è atto di fiducia in Dio e di speranza nella sua
volontà. Nella santa celebrazione dell’eucaristia siamo chiamati a
vivere la stessa carità del Signore e a vivere lo stesso suo amore
per tutto il popolo che è l’umanità.
Il
Custode giusto
La
solennità di San Giuseppe ci permette anche di riprendere i due
termini che sembrano individuare la figura del Santo: “custode” e
“giusto”.
Proprio
lo scorso anno, iniziando in questo giorno il suo ministero di
Vescovo di Roma, successore dell’Apostolo Pietro, Papa Francesco
fece un’intensa riflessione su San Giuseppe chiamato ad essere
“custode” della vita di Gesù e di Maria “con discrezione, con
umiltà, nel silenzio… con una presenza costante”.
Il
termine “custode” che noi riferiamo a San Giuseppe non si trova
esplicitamente nel brano evangelico che abbiamo appena proclamato,
ma, come dice il Papa, lo possiamo facilmente leggere nella missione
che gli è affidata. Il Vangelo di Matteo, infatti, riporta le parole
della vocazione di San Giuseppe nell’invito che gli è rivolto
dall’Angelo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere
con te Maria tua sposa”.
Il
Vangelo, però, ci ha detto, con chiarezza inequivocabile, che
Giuseppe era “uomo giusto”.
San
Giuseppe è l’uomo giusto che, anche quando non può comprendere,
sceglie di rispettare la vita, non impone la sua presenza e non piega
gli eventi alla sua volontà. E’ l’uomo che non condanna, non
grida una sua vendetta. Anche la scelta di mettersi da parte, con
tutta l’amarezza che poteva costargli, è il segno di un animo che
ama la vita, che ne rispetta e custodisce i dinamismi e le
situazioni.
Il
“custode” non è soltanto un guardiano stipendiato, il “custode”
è colui al quale la fiducia di un altro affida qualcosa di prezioso.
Il custode riconosce la ricchezza di ciò che gli è affidato, e la
rispetta e la protegge proprio perché ne apprezza l’autentico
valore. Giuseppe è “uomo giusto” perché riconosce che la vita è
di Dio, viene da Dio e Dio solo ne è il giudice.
Al
contrario, l’uomo ingiusto è colui che tende ad impossessarsi di
tutto ciò che appare come un valore, persino della vita. Per l’uomo
ingiusto tutto deve servire al proprio egoismo, nessuna cosa, nessuna
realtà sfugge alla possibilità di essere commerciata, venduta in
vista di un potere più grande. Per l’uomo ingiusto, in fondo, non
esiste alcuna vera ricchezza, non esiste alcun valore che sia tale di
per sé: tutto vale solo per acquistare qualche altra forma di
potenza, al solo scopo di dominare.
E’
la logica della camorra, di tutte quelle forme che noi chiamiamo
“malavita”. In queste forme di organizzazione si tende a
possedere, con prepotenza, tutto ciò che può servire ad imporre
prepotenza: è una terribile corsa verso il nulla, un tremendo
calpestare e distruggere la vita, e anche la propria vita.
L’uomo
che vive così ingiustamente è come Giuda: vende, vende la vita per
30 denari. Ci sarebbe da chiedere ma per acquistare cosa? Quale altra
cosa più preziosa potrebbe acquistare chi vende la vita? La
prepotenza si esprime nella morte e vive per il nulla.
Già
nel 1982 i Vescovi Campani avevano sottolineato che esiste “una
contrapposizione stridente tra i falsi messaggi della camorra e il
messaggio di Gesù Cristo”.
Papa
Francesco ha parlato di San Giuseppe invitandoci ad accogliere come
lui la vocazione ad essere “custodi”, a custodire “Cristo nella
nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato”. Il
Papa ci invita a riconoscere che chi accoglie il Cristo come valore
assoluto della sua vita riconosce la presenza di Dio e vive ogni
momento ed ogni situazione con il desiderio di partecipare della sua
volontà, del suo amore per ogni creatura, per la vita tutta.
Amare
il popolo, amare l’umanità perché è di Dio significa
riconoscerne il valore assoluto, significa accogliere la fiducia di
Dio che ci dona di partecipare, come custodi attenti e premurosi,
della vita dell’umanità, significa essere in dialogo, in comunione
con la vita, significa poter sorridere della crescita nel bene e
soffrire della fatica di ogni fratello, significa avere il coraggio e
la tenacia di proporre il bene, di testimoniare la verità anche
porgendo “l’altra guancia”.
Nella
memoria di Don Peppino Diana, San Giuseppe sia per tutti noi modello
dell’umanità che vive nella giustizia e nell’amore il suo
rapporto con la vita e con il Creatore che nel suo Figlio Gesù ci ha
donato di poterlo chiamare “Padre nostro”.
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