sabato 29 marzo 2014

Don Giuseppe Diana icona della testimonianza sacerdotale nella Diocesi di Aversa

Il fatto che alcune figure sacerdotali diventano simboli esemplari validi per l'intera comunità ecclesiale di una diocesi è legato ad un processo storico-culturale nel quale assume significati luminosi la testimonianza personale che esprime l'identità dell'opera svolta nella fede con il dono della vita vissuta per realizzarla.
La storiografia locale può indicare molte di queste figure presenti nella storia antica e recente della diocesi di Aversa. Nel merito si hanno a disposizione libri, studi e ricerche interessanti. Basti citare l'antologia Cultura e religiosità ad Aversa nei secoli XVIII-XX di don Gaetano Capasso, le monografie del Canonico Roberto Vitale, gli studi storici e religiosi di Luciano Orabona e di Alfredo di Landa, i libri di Alfonso D'Errico sul clero meridionale e diocesano, le monografie del Centro Missionario di Aversa curate da Nicola Giallaurito, le ricerche pubblicate dell'Istituto di Studi Atellani, le ricerche dell'Istituto di Scienze Religiose e gli studi promossi dall'Archivio Diocesano di Aversa diretto da Ernesto Rascato
Una caratterizzazione particolare, legata alla contemporaneità delle dimensioni più espressive dell'esperienza ecclesiale della comunità diocesana, è assunta dalla triade sacerdotale composta da padre Mario Vergara missionario martire del PIME, da don Salvatore Vitale parroco fondatore del Santuario Mia Madonna Mia Salvezza, e da don Giuseppe Diana parroco a Casale di Principe. La loro opera e la loro testimonianza si sono perfettamente identificate con la loro vita sacerdotale, ed hanno assunto valori esemplari per l'intera diocesi. Padre Mario Vergara è nominato beato e ben rappresenta lo spirito della missionarietà 'ad gentes' della Diocesi; don Salvatore Vitale è Servo di Dio e ben rappresenta l'opera pastorale legata alla devotio antica e alla carità necessaria nei confini rurali del territorio diocesano che fu visitato anche dal papa Giovanni Paolo II e dal cardinale Joseph Ratzinger; don Giuseppe Diana è al centro di convergenze simboliche che pongono la sua figura a rappresentare, a partire dal livello diocesano e con estensioni più generali a livello nazionale ed ecclesiale, istanze significative per la testimonianza della la fede e per l'etica sociale vissuta come superamento del degrado civile e della criminalità.
La relazione della comunità diocesana con l'esemplarità di queste figure sacerdotali le consente di riflettere sia sulla sua identità spirituale e sia sulla sua identità storica-territoriale, e di prendere coscienza di un percorso da loro illuminato, che s'inoltra per le difficoltà e le crisi ma che la porta a vivere sempre più intensamente le istanze del Vangelo e della civiltà cristiana.
Per padre Mario Vergara, martire in Birmania, la Diocesi si muove nella preghiera e nella preparazione spirituale per il giorno della beatificazione che sarà celebrato il 24 maggio prossimo.
Di don Salvatore Vitale la Diocesi raccoglie i frutti spirituali dell'opera di lui che continua con quella dei confratelli e delle consorelle della Piccola Casetta incentrata al Santuario mariano.
Per don Giuseppe Diana la Diocesi ha lanciato un programma di preghiere e di iniziative legato al ventennale dell'uccisione (19 marzo1994 - 19 marzo 2014) e realizzato intorno alla Parrocchia di San Nicola di Casale di Principe che è oggi guidata da don Franco Picone. Sul portale della Diocesi e sul portale dedicato all'opera di don Diana sono ampiamente illustrati il programma religioso e le numerose iniziative civili e culturali connesse alla celebrazione del ventennale. Tra queste ultime si contemperano anche la fiction proposta dalla RAI sulla figura di don Giuseppe interpretata da Alessandro Preziosi, la pubblicazione di libri commemorativi ed educativi, e i riferimenti dell'associazione Libera di don Ciotti che hanno coinvolto il 21 marzo 2014 la presenza di Papa Francesco alla veglia romana per le vittime di mafia.
Il programma religioso alla Parrocchia di San Nicola ha previsto due eventi significativi: per il giorno 18 marzo 2014 il ritiro spirituale del Clero diocesano con l'ascolto della relazione "Presbiteri in una terra che cerca speranza” del cardinale Crescenzio Sepe; e per il giorno 19 Marzo 2014, solennità di San Giuseppe, la celebrazione della Santa Messa mattutina con il vescovo Angelo Spinillo.
Ambedue questi eventi hanno dato rilevanza spirituale all'icona sacerdotale di don Giuseppe Diana.
Il cardinale Sepe ha sviluppato il suo discorso quasi completando, nella chiave teologica 'cristocentrica' e nella valorizzazione della testimonianza 'presbiterale' di don Giuseppe Diana, i contenuti che egli aveva già proposti nella lettera alla Diocesi “Il sangue e la speranza” in occasione del suo insediamento come arcivescovo di Napoli, e che in qualche modo aveva pure riferito nella sua lettera “Per amore del mio popolo” a conclusione del Giubileo della Città: 

“La città necessita di simboli capaci di rappresentare il legame tra il dolore e il riscatto […] Noi cristiani sappiamo che nell'ora più buia della notte, nel tempo della gioia e della povertà, della grandezza e della miseria, è possibile annunciare e riorganizzare la speranza […] chi ha fede, chi confida nel Signore, non resterà deluso. La speranza non inganna perché l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori attraverso lo Spirito C’è bisogno di imparare a giudicare gli avvenimenti alla luce della Parola di Dio, liberando la nostra storia dalla logica dei calcoli umani [….] Cerchiamo sempre di porre Cristo al centro della nostra vita, facendolo presente attraverso opere di carità, prendendoci cura dei deboli, afflitti, poveri, di chi ha bisogno della nostra compagnia, di spezzare il pane con noi. Perché non c’è speranza senza fede, ma non c’è speranza senza carità”.

Il vescovo Spinillo nella sua omelia, che riporto interamente dal portale diocesano, ha voluto dire il significato della “messa non celebrata” da don Diana nella mattina del 19 marzo 1994.


Parrocchia San Nicola di Bari, Casal di Principe, 19 marzo 2014
omelia del vescovo Angelo Spinillo

Carissimi Confratelli nel sacerdozio,
carissimi fratelli e sorelle,
con voi porgo il più cordiale e grato saluto alle autorità civili e militari qui convenute, l’annuale celebrazione della memoria dell’uccisione di Don Peppino Diana ci raccoglie a celebrare la santa Eucaristia in questa chiesa in cui egli ha svolto il suo ministero sacerdotale come parroco. Sentiamo di essere qui, ora, intorno all’altare a vivere il momento culminante di tutta l’ampia e feconda serie di iniziative e di attività che tutti, con le nostre associazioni, con le nostre capacità, in questi ultimi giorni abbiamo voluto proporre all’intera nostra comunità per ricordare i venti anni trascorsi dall’uccisione di Don Peppino e soprattutto per far risuonare ancora quelle parole di vita nuova che la sua testimonianza viene nuovamente a consegnarci.
Il ricordo di un’uccisione è sempre drammatico, pesa in maniera ancora terribile sul cuore e nella memoria di chi in quel tragico evento è stato direttamente coinvolto o ne è stato personalmente testimone. Ma pesa anche nella consapevolezza e nei sentimenti di chi nel tempo, con forme e motivazioni diverse, si è accostato alla figura don Peppino Diana condividendo l’impegno e la speranza di associazioni o di gruppi che si ispirano alla sua persona per annunziare e far crescere nella società la fedeltà alla giustizia, la ricerca della verità e la ricchezza del bene comune. Il ricordo dell’uccisione di un uomo, di un prete rimane come un grave peso in tutti coloro che hanno un senso positivo e buono della vita. Rimane come una terribile domanda di senso che non trova risposta. Rimane come un’incredibile negazione della bontà e della bellezza del vivere. Il ricordo dell’uccisione di un uomo, di un prete rimane come una schiacciante sconfitta della speranza di giustizia e, di più, dell’essere insieme uomini sulla stessa terra; rimane come una disperata negazione dell’essere fratelli nella stessa casa.
Ma noi non siamo qui soltanto sospinti da un ricordo struggente che corrode ogni speranza di bene, noi siamo qui, oggi, per partecipare nuovamente ed ancora all’eucaristia, ad un sacrificio, per celebrare il mistero di una morte che diventa offerta di vita, per celebrare il rinascere del bene, l’affermarsi della verità, la festa dell’essere comunità che spera e cammina. E infatti la nostra celebrazione della santa messa, questa mattina, come tutte le altre manifestazioni di questi giorni passati e quelle che si svolgeranno in questa giornata, porta in sé anche la nota della gioia che contempla e vive una speranza nuova.
Certamente questo non significa che il passare del tempo faccia dimenticare la sofferenza ed il dolore. Piuttosto significa che il tempo, questi venti anni che sono passati, ci permettono di comprendere meglio la grandezza del bene vissuto ed offerto da Don Peppino, del suo vivere come sacerdote della Chiesa, del suo cercare la bellezza e la bontà della vita, del suo donare attenzione a quella parte di umanità che egli amava secondo l’insegnamento del Signore Gesù Cristo. E significa che oggi sappiamo e annunziamo con gioia e con forza che, illuminati dalla testimonianza di questo nostro fratello e amico sacerdote, tutti e ciascuno, nel tempo, abbiamo imparato a camminare con più viva speranza verso scelte ed atteggiamenti degni di un’umanità vera e capace di amare la vita. La celebrazione di questa giornata ci invita ad alzare lo sguardo, certi di poter incontrare la luce.
In questa prospettiva, oggi la celebrazione della santa eucaristia sembra realizzare ciò che, con animo turbato e triste, disse il Vescovo Lorenzo Chiarinelli nell’omelia per la celebrazione esequiale di Don Peppino. Egli parlò di una domanda che «sale dal cuore dell’uomo, dal cuore autentico di questo territorio, soprattutto dal cuore sincero dei giovani» come bisogno e impegno di poter andare incontro a «quel “regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace” che Cristo ha iniziato. Ma – si chiedeva il Vescovo – c’è una risposta a questa domanda? Trova esaudimento questo desiderio? Si, risponde Gesù. Ma bisogna alzare lo sguardo, mirare lassù… La risposta è affissa ad una croce: in quel punto ideale si incontrano cielo e terra, Dio e l’uomo, ed è lì che, come da sorgente, sgorgano giustizia e fraternità, perdono e pace, perché è lì che dolore e amore, vittoria e sconfitta coincidono».
Oggi siamo qui per celebrare, con la certezza della fede, la verità che è il Cristo, la vita che Egli, uomo nuovo, ci chiama a vivere con Lui.

La Messa celebrata
In questo senso, allora, dobbiamo riconoscere che non siamo stati efficaci nell’annunziare questa celebrazione usando l’espressione “La Messa non celebrata”. Ci ho pensato dopo.
E’ vero che quella mattina del 19 marzo 1994 Don Peppino Diana venne in questa chiesa per celebrare la santa messa e fu ucciso prima di potersi accostare all’altare. Ma è anche vero che la Messa, che ogni celebrazione della santa eucaristia è la nostra personale,viva e totale partecipazione all’unico sacrificio del Cristo. Il sacrificio del Cristo è l’offerta piena e definitiva della sua vita di Figlio all’amore del Padre per la nostra redenzione dal peccato, e ogni nostra messa è celebrazione reale del mistero grande, dell’unico, irripetibile, infinito sacrificio di Gesù.
Per spiegarci potremmo dire che come ogni dono che facciamo alle persone che amiamo è espressione vera e concreta di un unico, grande amore, così le nostre celebrazioni attualizzano, nella varietà dei tempi e dei momenti della storia, l’unico, grande sacrificio del Figlio di Dio che ci apre alla comunione con l’infinita misericordia del Padre. Nell’eucaristia noi, popolo dei credenti, partecipiamo al sacrificio del Cristo e, in comunione con Lui e per Lui, offriamo la nostra vita a Dio. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo: “La vita dei fedeli, la loro lode, la loro sofferenza, la loro preghiera, il loro lavoro, sono uniti a quelli di Cristo ed alla sua offerta totale, e in questo modo acquistano un valore nuovo. Il sacrificio di Cristo riattualizzato sull’altare offre a tutte le generazioni di cristiani la possibilità di essere uniti alla sua offerta” (CCC 1368).
Allora, in quella mattina, Don Peppino ha celebrato la sua offerta; unito al sacrificio del Cristo ha offerto il suo proprio sacrificio; in comunione con il Figlio ha presentato la sua vita al Padre per amore del popolo in mezzo al quale, e per il quale era stato chiamato e consacrato sacerdote a immagine di Gesù. Chiamato, come Gesù, ad offrire la sua vita, Don Peppino ha celebrato la sua messa.
In questa mattina anche noi siamo chiamati, come popolo radunato “da un confine all’altro della terra” ad offrire a Dio “il sacrificio perfetto”, il sacrificio del Cristo. Con Don Peppino anche noi partecipiamo all’offerta piena e definitiva del Signore Gesù, partecipiamo al suo sacrificio che dona salvezza.
La nostra celebrazione è atto di fiducia in Dio e di speranza nella sua volontà. Nella santa celebrazione dell’eucaristia siamo chiamati a vivere la stessa carità del Signore e a vivere lo stesso suo amore per tutto il popolo che è l’umanità.

Il Custode giusto
La solennità di San Giuseppe ci permette anche di riprendere i due termini che sembrano individuare la figura del Santo: “custode” e “giusto”.
Proprio lo scorso anno, iniziando in questo giorno il suo ministero di Vescovo di Roma, successore dell’Apostolo Pietro, Papa Francesco fece un’intensa riflessione su San Giuseppe chiamato ad essere “custode” della vita di Gesù e di Maria “con discrezione, con umiltà, nel silenzio… con una presenza costante”.
Il termine “custode” che noi riferiamo a San Giuseppe non si trova esplicitamente nel brano evangelico che abbiamo appena proclamato, ma, come dice il Papa, lo possiamo facilmente leggere nella missione che gli è affidata. Il Vangelo di Matteo, infatti, riporta le parole della vocazione di San Giuseppe nell’invito che gli è rivolto dall’Angelo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua sposa”.
Il Vangelo, però, ci ha detto, con chiarezza inequivocabile, che Giuseppe era “uomo giusto”.
San Giuseppe è l’uomo giusto che, anche quando non può comprendere, sceglie di rispettare la vita, non impone la sua presenza e non piega gli eventi alla sua volontà. E’ l’uomo che non condanna, non grida una sua vendetta. Anche la scelta di mettersi da parte, con tutta l’amarezza che poteva costargli, è il segno di un animo che ama la vita, che ne rispetta e custodisce i dinamismi e le situazioni.
Il “custode” non è soltanto un guardiano stipendiato, il “custode” è colui al quale la fiducia di un altro affida qualcosa di prezioso. Il custode riconosce la ricchezza di ciò che gli è affidato, e la rispetta e la protegge proprio perché ne apprezza l’autentico valore. Giuseppe è “uomo giusto” perché riconosce che la vita è di Dio, viene da Dio e Dio solo ne è il giudice.
Al contrario, l’uomo ingiusto è colui che tende ad impossessarsi di tutto ciò che appare come un valore, persino della vita. Per l’uomo ingiusto tutto deve servire al proprio egoismo, nessuna cosa, nessuna realtà sfugge alla possibilità di essere commerciata, venduta in vista di un potere più grande. Per l’uomo ingiusto, in fondo, non esiste alcuna vera ricchezza, non esiste alcun valore che sia tale di per sé: tutto vale solo per acquistare qualche altra forma di potenza, al solo scopo di dominare.
E’ la logica della camorra, di tutte quelle forme che noi chiamiamo “malavita”. In queste forme di organizzazione si tende a possedere, con prepotenza, tutto ciò che può servire ad imporre prepotenza: è una terribile corsa verso il nulla, un tremendo calpestare e distruggere la vita, e anche la propria vita.
L’uomo che vive così ingiustamente è come Giuda: vende, vende la vita per 30 denari. Ci sarebbe da chiedere ma per acquistare cosa? Quale altra cosa più preziosa potrebbe acquistare chi vende la vita? La prepotenza si esprime nella morte e vive per il nulla.
Già nel 1982 i Vescovi Campani avevano sottolineato che esiste “una contrapposizione stridente tra i falsi messaggi della camorra e il messaggio di Gesù Cristo”.
Papa Francesco ha parlato di San Giuseppe invitandoci ad accogliere come lui la vocazione ad essere “custodi”, a custodire “Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato”. Il Papa ci invita a riconoscere che chi accoglie il Cristo come valore assoluto della sua vita riconosce la presenza di Dio e vive ogni momento ed ogni situazione con il desiderio di partecipare della sua volontà, del suo amore per ogni creatura, per la vita tutta.
Amare il popolo, amare l’umanità perché è di Dio significa riconoscerne il valore assoluto, significa accogliere la fiducia di Dio che ci dona di partecipare, come custodi attenti e premurosi, della vita dell’umanità, significa essere in dialogo, in comunione con la vita, significa poter sorridere della crescita nel bene e soffrire della fatica di ogni fratello, significa avere il coraggio e la tenacia di proporre il bene, di testimoniare la verità anche porgendo “l’altra guancia”.

Nella memoria di Don Peppino Diana, San Giuseppe sia per tutti noi modello dell’umanità che vive nella giustizia e nell’amore il suo rapporto con la vita e con il Creatore che nel suo Figlio Gesù ci ha donato di poterlo chiamare “Padre nostro”.


venerdì 28 marzo 2014

La conferenza aversana del cardinale Scola su Speranza ed Evangelizzazione

All'ora dei Vespri del venerdì 14 marzo 2014 la cattedrale di Aversa si è gremita di fedeli e di persone interessate all'ascolto del cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, invitato dal vescovo Angelo Spinillo a tenere una relazione sull'argomento della Speranza che è stato scelto come tema della pastorale annuale per la Diocesi. Religiosi e laici, rappresentanti del clero e dei molteplici uffici diocesani, delle parrocchie e delle aggregazioni culturali, hanno potuto vivere per oltre un'ora una bella esperienza di catechesi e di rigoroso ragionamento teologico stimolanti per la fede e la testimonianza del Vangelo; e quasi tutti hanno potuto personalmente avere uno scambio di parole e di saluti con il cardinale ospite. All'incontro non è mancata l'umile presenza del vescovo emerito Mario Milano.
Il cardinale Scola è stato accolto dal Vescovo Spinillo e dal Vicario Generale d. Francesco Picone ed ha occupato la posizione centrale tra i due al tavolo di lavoro allestito sul piano balaustrato dinanzi all'altare.
Ha introdotto il Vescovo Spinillo che prendendo spunto dalla Spe salvi di Benedetto XVI, ha posto la questione del rapporto tra la speranza vissuta nella quotidianità e la certezza che si fonda sulla fede nella Presenza del Signore. Illustrando il cammino dell'anno pastorale 2013-2014 della Diocesi incentrato sulla tematica “Il Signore è veramente risorto”, ed improntato alla riflessione sulla virtù teologale della speranza, il vescovo ha chiesto al cardinale di illuminare con il suo discorso la problematica della speranza vissuta dall'uomo contemporaneo nelle varie dimensioni della fede e e del pensiero, in Italia in Europa e nel mondo, e di offrire spunti di riflessione utili al “cammino triennale di formazione e di attenzione pastorale nell’orizzonte dell’educare al vivere la fede, la speranza e la carità”. Ed utili a stimolare “la concretezza di quei ‘percorsi di vita buona’ che sono gli ambiti propri del vivere quotidiano dell’umanità di questo tempo: Lavoro e festa, Cittadinanza, Affettività, Fragilità e Tradizione”.
I cardinale Scola esordisce con un riferimento alla bellezza della Cattedrale aversana e alle “Briciole di Storia” della Diocesi che egli ha potuto raccogliere; ed umilmente afferma di non sapere se sarà in grado di rispondere nelle aspettative e negli orizzonti proposti dal vescovo nei 50 minuti che egli prevede di assegnare al suo intervento. E quindi magistralmente si impegna nella sua riflessione umanistica-pastorale sulla speranza prendendo e sviluppando spunti interessanti ed efficaci dalla letteratura, dalla filosofia, dalla teologia, dalla Sacra Scrittura e dal Magistero della Chiesa. Umanità e Santità, nuovo umanesimo e ricerca di Dio, sono da lui proposti come prerogative e dimensioni del dialogo che porta i credenti a vivere la speranza nella testimonianza e nella relazione personale con il Signore e con i fratelli.
Il suo discorso è un crescendo di esplicitazioni e di approfondimenti che si articola nei punti che egli formalmente intitola: 1. Speranza virtù bambina; 2. Gesù Cristo nostra speranza; 3. Testimoni di speranza; 4. La speranza nell'incontro del nostro fratello uomo; 5. La speranza genera un nuovo umanesimo; 6. Raccontare Gesù nostra speranza.
Sul portale della Diocesi il discorso del cardinale Angelo Scola è riportato per intero: lo trascriviamo per comodità di lettura.


Intervento di S. Em.za Angelo Card. Scola
Arcivescovo di Milano
CATTEDRALE DI AVERSA
14 MARZO 2014
1. Speranza, “virtù bambina”
In un articolo pubblicato quasi trent’anni fa su La Stampa e significativamente intitolato Chi ci libererà dalla barbarie. I tamburi del profeta, l’inquieto e pessimista intellettuale Guido Ceronetti scriveva: «Tuttavia aspettare qualcuno che sia in assoluto altro, uno Straniero, un Esiliato che abbia in comune con noi soltanto la forma umana, o neppure quella: la parola soltanto, la parola davanti a cui niente resiste, e la mano, ma guaritrice, esercitata a guarire toccando, è una interessante vendetta, un’ombra, se non la carne, di un rimedio, un modo per attenuare il dolore della piaga civile, per consolare il gemito insistente del cuore indecentemente oltraggiato. Così ogni mattino mi dico: dovrà pur venire qualcuno, forse oggi stesso lo sapremo, scoprendo qualcosa di cambiato in una delle solite facce che s’incontrano, e venendo disperderà con un soffio, prima di ogni altra cosa, questa verminaia terra di poteri senza legge che ci intortiglia [attorciglia]» .
Sono parole che mantengono una attualità sconcertante. Non solo perché la situazione sociale può, per certi aspetti, continuare ad essere descritta con espressioni quali “poteri senza legge” – non mi riferisco soltanto alla situazione del nostro Paese, ma soprattutto allo stato in cui versano intere popolazioni del sud del pianeta, in particolare quelle dell’Africa sub sahariana –; le parole di Ceronetti sono attuali perché descrivono, forse con eccessiva durezza, la condizione che rende l’attesa, elementare forma di speranza, umanamente reale e non una pura illusione utopica o addirittura un inganno menzognero.
Perché? Perché l’affermazione di Ceronetti ci fa comprendere che la speranza non può semplicemente derivare dal cambiamento delle circostanze: è troppo poco. Essa, invece, s’identifica con la venuta di qualcuno. Non siamo noi a poterci ridare speranza da soli, non siamo noi a salvarci con le nostre forze. Deve essere veramente un altro a farlo per noi. E parlare di un altro significa individuare il terreno su cui può fiorire la speranza: essa è sempre frutto dell’incontro tra un io e un tu. Non c’è speranza per chi non lascia spazio all’altro. Siamo ben consapevoli che questo lasciar spazio all’altro non sia così comune nel nostro mondo post-moderno nel quale sempre più si espande un individualismo narcisista. Il narcisista, infatti, è colui che prolunga per tutta la vita l’inevitabile esperienza della primissima infanzia: guardarsi allo specchio e vedere sé come l’altro. Maturità domanda, invece, di lasciar essere l’altro come altro. Il narcisismo tronca alla radice ogni speranza, perché non “vede” l’altro e finisce per generare solitudine cattiva. Allora la vita pesa, come ha genialmente intuito Dante condannando i superbi a camminare schiacciati da enormi massi sulle spalle.
Ma l’altro che aspettiamo – ecco il secondo spunto offerto dal nostro autore – deve avere forma umana… Devo poterlo riconoscere. Non c’è possibilità di sperare se non si incontra, nella trama di circostanze e di rapporti che investono la nostra esistenza, quella presenza che «disperderà con un soffio [ciò] che intortiglia» perché rende capaci di affrontare la realtà simultaneamente con meraviglia e serietà. Come fanno i bambini.
Péguy afferma: «La speranza è virtù bambina, che prende per mano la fede e la carità» .
La speranza per l’Europa, e più in generale per il mondo contemporaneo – al di là di tutte le analisi e le proposte che possono essere sbandierate dai mass media, si gioca a questo livello. L’Europa avrà speranza se sarà abitata da uomini e donne di speranza.
Sulla base di questa decisiva premessa si può capire come parlare di speranza conduca a riflettere sulla nuova evangelizzazione tanto necessaria per le Chiese di antica origine. Penso alla mia Milano ma anche alla vostra gloriosa Chiesa le cui radici risalgono, mi pare, intorno al 1022. È qui che possiamo riconoscere tutta la portata dell’invito ad una Chiesa in uscita, come ama ricordarci il Santo Padre .
2. «Gesù Cristo, nostra speranza» (1Tm 1,1)
La Prima Lettera a Timoteo definisce «Gesù Cristo nostra speranza». Quale esperienza facciamo di questa realtà? Partiamo un’altra volta dall’esperienza umana comune. Ci aiuta Kafka che nel romanzo Il castello scrive: «Colui che non abbiamo mai visto, che però aspettiamo sempre con vera bramosia [Colui], che ragionevolmente però è stato considerato irraggiungibile per sempre – eccolo qui seduto» .
Qui seduto: proprio colui che si riteneva irraggiungibile, tanto è altro, lo incontriamo seduto accanto a noi. Questo è il cristianesimo: la speranza fattasi carne per accompagnare da vicino la vita degli uomini. Pensiamo all’esperienza di sua madre, degli apostoli, dei due di Emmaus.
Recentemente Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, ha voluto ribadire con forza una delle linee maestre dell’insegnamento di Benedetto XVI. Scrive il Papa: «Non mi stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva”» . Si tratta, come sappiamo, della citazione dell’incipit dell’enciclica Deus caritas est. L’affermazione di Benedetto XVI ci dice che all’origine della speranza c’è l’incontro con Dio che sempre ci precede: Gesù Cristo è la nostra speranza.
È essenziale non perdere mai di vista né dare per scontata quest’origine gratuita della speranza. Infatti, nelle nostre società in transizione all’avvio del terzo millennio, sotto le più diverse espressioni – incluse quelle contraddittorie e violente – l’uomo contemporaneo è messo alla prova da una domanda radicale: «La grande sofferenza dell’uomo è proprio questa: dietro il silenzio dell’universo, dietro le nuvole c’è un Dio o non c’è? E, se c’è questo Dio, ci conosce, ha a che fare con noi? Questo Dio è buono, e la realtà del bene ha potere nel mondo o no? (…) È una realtà o no? Perché non si fa sentire?» , così Benedetto XVI. Il dubbio che la solitudine possa essere la parola definitiva sull’umano destino porta gli uomini a cedere alla tentazione di una “desertificazione spirituale”, che conduce alla «diffusione del vuoto» .
Questo non è pessimismo ma realismo, tanto più che per la tradizione biblica il “deserto” è l’ambito privilegiato dell’“incontro” e del “cammino” del popolo col Dio vivo che manifesta il suo potere salvifico compiendo meraviglie.
Come far fronte ad una tale situazione? All’inizio dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione Benedetto XVI ha risposto alla domanda, indirizzando il nostro sguardo e il nostro pensiero a quello che possiamo chiamare l’antefatto che dà vita alla Chiesa: «Dio ha parlato, ha veramente rotto il grande silenzio, si è mostrato, ma come possiamo far arrivare questa realtà all’uomo di oggi, affinché diventi salvezza? (…) Solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste è la condizione della nascita della Chiesa (…) Dio è l’inizio sempre» .
Un’indicazione fondamentale affinché la nuova evangelizzazione riesca a ridare speranza all’Europa e più in generale alla contemporanea famiglia umana potrebbe essere formulata in questo modo: la precedenza è sempre di Dio, Egli parla ed opera. La Chiesa, ciascuno di noi, può solo co-operare con Lui.
3. Testimoni di speranza
Mi pare che proprio il verbo “co-operare” descriva adeguatamente il compito dei cristiani nella nuova evangelizzazione, la loro responsabilità di fronte alla speranza.
Se l’origine permanente e insuperabile è sempre la precedenza di Dio, «dall’altra parte questo Dio, che è sempre l’inizio, vuole anche il coinvolgimento nostro, vuole coinvolgere la nostra attività, così che le attività sono teandriche, per così dire, fatte da Dio, ma con il coinvolgimento nostro e implicando il nostro essere, tutta la nostra attività» . L’espressione usata dal Santo Padre e la spiegazione che egli ne ha dato sono inequivocabili: le attività della Chiesa sono “teandriche”, cioè divino-umane, non perché “fatte da Dio e da noi”, ma perché «fatte da Dio con il coinvolgimento nostro». In questo modo Benedetto XVI ci aiuta a cogliere che il carattere divino-umano dell’evangelizzazione non implica una “parità” di compiti o di protagonismo tra Dio e i cristiani: la nostra attività avrà sempre la forma mariana della risposta, della collaborazione attraverso l’assenso, cioè dell’obbedienza della fede. Solo Dio è il protagonista, la Chiesa è co-agonista. L’ambito in cui si può percepire con maggior chiarezza questo essere co-agonista proprio della Chiesa è la celebrazione liturgica. In essa, infatti, il popolo cristiano è di fronte al Signore sempre in posizione mariana, la posizione di Maria che coopera con il suo fiat all’iniziativa di Dio che la precede. Questa “qualità responsoriale”, che emerge con chiarezza nella liturgia, è caratteristica di ogni espressione della vita della Chiesa.
Il nome proprio di questa “qualità responsoriale” propria della vita cristiana è testimonianza (autoesposizione). Mettere a tema la testimonianza come forma specifica dell’esistenza del cristiano è la strada per parlare della nuova evangelizzazione quale fonte di speranza per l’Europa.
Tuttavia il termine, a prima vista chiaro, viene troppo spesso sottoposto a riduzioni. Per esempio una testimonianza che si limiti alla sola, pur importante, coerenza del singolo con alcuni principi di comportamento, non risulta convincente. Il necessario “buon esempio” non basta per renderci testimoni autentici. Si è effettivamente testimoni quando «attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica. Si può dire che la testimonianza è il mezzo con cui la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale. Nella testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo. Gesù stesso è il testimone fedele e verace (cf. Ap 1,5; 3,14); è venuto per rendere testimonianza alla verità (cf. Gv 18,37)» .
Proviamo, quindi, ora a descrivere sinteticamente tre caratteristiche della testimonianza adeguatamente intesa.
a) Mi preme molto sottolineare che essa non è qualcosa di aggiunto alla vita di ciascuno di noi, un’attività che si sovrappone al “mestiere di vivere”, rendendolo ulteriormente faticoso. La testimonianza coincide invece con una vita cristiana matura, che si esprime e si gioca attraverso quei cardini dell’esistenza che sono gli affetti, il lavoro e il riposo . Il testimone è consapevole della responsabilità missionaria indicataci dall’Apostolo: «A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,27).
b) La testimonianza ci fa interlocutori di tutti. Non c’è niente e nessuno che possa o debba essere estraneo ai seguaci di Cristo. Tutto e tutti possiamo incontrare, a tutto e a tutti siamo inviati. E questo perché ciascuno di noi, in quanto segnato dalle situazioni della vita comune, è nel mondo. Siamo, ci ha ricordato Papa Francesco, «chiamati a promuovere la cultura dell’incontro» . Non dobbiamo pertanto costruirci dei recinti separati in cui essere cristiani. È Cristo stesso a porre la sua Chiesa ed i figli del Regno nel mondo reale delle circostanze comuni a tutti gli uomini e a tutte le donne.
c) Abitando il mondo i discepoli di Gesù sono pieni di attenzione e di stupore, perché il loro sguardo non si ferma alla superficie talora sconcertante delle cose, non si lascia impressionare dalla cronaca spesso enigmatica e tragica, dalla zizzania, ma riconosce le tracce dell’opera compiuta da Dio in Gesù Cristo. Il Seminatore infatti non si stanca di spargere seme buono. Dovunque arrivi, il discepolo sa di essere preceduto e atteso da Gesù. L’attenzione, di conseguenza, non va posta sul nostro “fare”, ma su ciò che il Signore suscita. Al cuore della crisi di speranza del nostro tempo c’è spesso l’aver smarrito, o almeno sbiadito, la coscienza della gratuità dell’incontro con Cristo, che sempre ci precede e ci aspetta.
4. Con speranza all’incontro del nostro fratello uomo
Le domande dell’uomo contemporaneo sul senso della vita, lette a partire dalla situazione delle Chiese in Europa, ci conducono ad un interrogativo che ha il sapore di una scommessa: chi vuole essere l’uomo del terzo millennio? Come può vivere all’altezza dei propri desideri, ben consapevole delle inedite possibilità di cui dispone? Come può evitare di “perdere se stesso” nel tentativo di guadagnare il “mondo intero”?
Da qui sorge una questione decisiva: da che cosa è caratterizzato il contesto sociale in cui siamo chiamati a trasmettere la speranza in questo inizio del terzo millennio? Anche in forza del processo di secolarizzazione, dobbiamo oggi fare i conti con una “società plurale” in cui convivono soggetti portatori di mondovisioni spesso assai differenti tra loro e potenzialmente in conflitto: si pensi al fenomeno dell’indifferenza sociale per il quale nello stesso tempo tutto è diverso e tutto è uguale, a quello della società della rete (in riferimento allo strabiliante sviluppo dei mezzi di comunicazione), al processo di meticciato di civiltà e di culture, nonché all’imponenza della capacità manipolatoria del reale da parte delle tecnoscienze. In tale contesto la domanda di speranza, legata ultimamente al rapporto costitutivo dell’uomo con la realtà e pertanto ultimamente inestirpabile, diventa domanda di senso (significato e direzione), di libertà e di felicità, che chiede di essere intercettata ed interpretata.
Vediamo tre condizioni di questa decisiva ed universale domanda di senso come espressione di speranza:
a) con tale domanda si confronta ogni giorno il cristiano. E non tanto perché l’interrogativo interessa i suoi fratelli uomini, quanto piuttosto perché si tratta della domanda di senso che la vita pone innanzitutto a lui. Di fronte ad essa l’incontro con la persona di Gesù Cristo documenta come Dio, entrando nella storia, voglia fecondare con la sua presenza rinnovatrice tutta la realtà. Anche oggi questa novità di vita può essere riconosciuta sui volti degli uomini e delle donne trasformati dalla fede: i “cristiani” sono coloro che, per grazia, hanno ricevuto in dono l’esistenza stessa di Gesù e Lo seguono nel quotidiano. Si profila quella che san Paolo chiama «una creatura nuova» (2Cor 5,17). La consapevolezza di tale grazia conduce tutti i fedeli, che l’hanno incontrata nelle diverse forme di realizzazione della Chiesa, a proporre il rapporto con Gesù, verità vivente e personale, come risorsa decisiva per il presente e per il futuro. Il testimone inevitabilmente racconta Gesù e ciò che Gesù opera in lui.
b) Alla domanda di senso come espressione di speranza non si risponde con un progetto, tanto meno con un calcolo. Pieni di gratitudine i cristiani intendono “restituire” il dono che immeritatamente hanno ricevuto e che, pertanto, chiede di essere comunicato con la stessa gratuità. Come? Attraverso lo snodarsi della vita della comunità ecclesiale, che persevera nel pensiero di Cristo, nella comunione sincera, nella celebrazione eucaristica, in una piena apertura a tutta la realtà. Vivendo in questo modo i cristiani possono, con franchezza e gioia, senza alcun artificio o forzatura, proporre l’incontro con Gesù Risorto in ogni momento e dire a chiunque: «Vieni e vedi» (Gv 1,46).
c) Nella comunione ecclesiale così intesa, ogni diversità viene pienamente valorizzata perché fa brillare quell’unità per cui Gesù ha pregato affinché «il mondo creda» (Gv 17,21). Infatti, quando la comunione non è un optional, ma diventa concreto metodo di vita, le diversità arricchiscono ed edificano, suscitando il fascino della proposta cristiana in ogni ambito dell’esistenza quotidiana.
Cosa implica questo uscire da se stessi per portare a tutti Gesù come speranza per ogni uomo e ogni donna? Anzitutto la necessità di rischiare la propria libertà, di esporre se stessi. E proprio in ciò consiste la testimonianza.
Il testimone autentico però rinvia a Cristo, sommamente amato, non a sé. Per questo non mortifica la libertà dell’altro, non è schiavo dei risultati, non isola e non divide. Il testimone fa crescere la libertà da se stessi, dal proprio progetto, dall’immagine di sé che si sogna. Il testimone impara a conoscere in modo appropriato la realtà, ne scopre, sulla propria pelle, la verità e la comunica ai fratelli. Cristo crea amicizia, genera comunione.
Guardare a Maria Vergine, a san Giuseppe e a tutti i santi ci fa capire, meglio di ogni definizione, quale sorgente di senso e perciò di speranza sia la testimonianza integralmente intesa. «Contemplerò ogni giorno il volto dei Santi per trovare conforto nei loro discorsi». Torna l’importanza del racconto (Didachè).
Il “cattolicesimo popolare” che caratterizza la nostra nazione è chiamato pertanto a radicarsi più profondamente nella vita degli uomini attraverso l’annuncio esplicito della bellezza, della bontà e della verità di Gesù Cristo all’opera nel mondo: «Nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto la Chiesa perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» .
5. La speranza genera un nuovo umanesimo
Anche all’inizio di questo terzo millennio Gesù Cristo è feconda radice di un nuovo umanesimo di cui tanto sentiamo il bisogno. L’incontro gratuito con Cristo si rivela così in tutta la sua corrispondenza all’umano desiderio di pienezza. A tal punto che la necessaria verifica dell’autenticità della fede consiste proprio nella scoperta che essa “conviene” al cuore dell’uomo.
Nel contesto della società plurale che domanda nuovo umanesimo i cristiani non cercano la vittoria della propria parte. Al di là degli errori commessi lungo la storia essi accettano ciò che Dio concede alla famiglia umana. Possono essere, di volta in volta, maggioranza costruttiva o minoranza perseguitata, ma quello a cui sono chiamati è solo l’essere presi a servizio del disegno buono con cui Dio accompagna la libertà degli uomini.
In questi convulsi tempi di cambiamento le dimensioni della comune ed elementare esperienza umana – affetti, lavoro, riposo, a cui si aggiungono, come ci ha insegnato il Convegno di Verona (2006), gli aspetti della fragilità, della tradizione e della cittadinanza di cui non abbiamo qui il tempo di parlare – provocano tutti i cristiani ad una verifica non più rinviabile, perché a tutti gli uomini si documenti Cristo come nostra speranza.
a) Il Vangelo visita gli affetti e li porta a compimento proponendo il comandamento dell’amore, che da affettivo diventa effettivo: «La fede fa comprendere l’architettura dei rapporti umani perché ne coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio, nel suo amore» . Il “per sempre” e la fecondità dell’amore – nel matrimonio, inteso come unione indissolubile e aperta alla vita di un uomo e una donna, e nella verginità consacrata – è quindi il compimento del bisogno e del desiderio di ciascuno di essere amato e di amare.
b) I cristiani hanno la responsabilità di portare la speranza anche nel campo del lavoro, facendosi eco dell’apprezzamento di Dio per l’intraprendenza e la laboriosità umana, praticando la giustizia e la solidarietà come virtù irrinunciabili ed esercitando la propria professione come una vocazione. Hanno il compito di vivere nel quotidiano ambiente di lavoro come discepoli che non nascondono la loro fede, ma la condividono con gli altri fratelli e ne offrono testimonianza a tutti. Cosa ci insegna la figura di don Peppe Diana, che state commemorando a 20 anni dalla sua uccisione, se non che i cristiani sono chiamati a impegnarsi con maggior vigore ed energia in quell’eminente forma di carità che è la politica, intesa in senso ampio e pieno?
c) I cristiani hanno infine la responsabilità di essere uomini di speranza anche nell’ambito del riposo, tante volte confuso con il semplice svago. Conoscono, infatti, che la condizione più desiderabile per il riposo è la comunione, quella grazia di sapersi a casa nella relazione buona che lo Spirito di Dio sa costruire facendo dei molti una cosa sola. Perciò la dimensione cristiana del riposo è la festa e il cuore della festa è la celebrazione eucaristica. Viene così offerta la possibilità non solo di staccare dal lavoro e di interrompere la fatica, ma di una rigenerazione che rende la persona pronta per ogni opera buona.
Insieme alla novità cristiana, la domenica eredita tutto il valore del sabato biblico e ritma il tempo con l’irrinunciabile memoria delle opere di Dio e della sua presenza: è quindi il giorno della lode, della intercessione, della speranza, della condivisione e della letizia.
6. Raccontare Gesù nostra speranza
Se Gesù è venuto per portare agli uomini la speranza, tocca ai cristiani che per grazia Lo hanno incontrato «raccontare Gesù»: è il titolo di un prezioso libretto del giovane cardinale di Manila, Luis Antonio Tagle. Dar testimonianza a Cristo e di Cristo, Verità vivente e personale, di fronte alla sempre risorgente pretesa di «incanalare Cristo, quest’acqua selvaggia nelle turbine dell’umanità a vantaggio di quest’ultima» . La «ferita inferta alla storia del mondo con l’apparire di Cristo continua a suppurare» . Cristo, invece, continua a tener desto per il nostro bene l’inquietum cor di cui parla Sant’Agostino.
Della compagnia di Dio nessuno dovrà avere timore. Soprattutto se i cristiani, resistendo alla tentazione dell’egemonia ed attingendo al metodo testimoniale di Gesù, sapranno fare della loro differenza specifica la via di una proposta umile e tenace. Incontreranno in tal modo l’insopprimibile anelito di speranza degli uomini, che è sempre desiderio di Dio anche se talora manifestato in modo confuso e contraddittorio. L’anelito di speranza, infatti, è come la fenice. Rinasce sempre dalle proprie ceneri. È lo stesso Dio a farlo rinascere perché Egli «è più esigente di noi per la nostra felicità… [noi invece] saremo sempre avari nella nostra speranza. Le eresie sono frutto dell’impotenza a sperare il più» .
Nella testimonianza e nel racconto il cristiano condivide di persona almeno un frammento del desiderio di pienezza che non si spegne mai del tutto nell’uomo, ridesta nel suo cuore la speranza e, quindi, la nostalgia di Dio, destino dell’uomo, sorgente e culmine della sua felicità. Questa riuscita umana ha un nome semplice e luminoso. Si chiama santità.

Infatti il santo che noi tutti possiamo essere, altro non è che un uomo riuscito.