martedì 29 gennaio 2013

Memoria ebraica in una pagina di storia frattese del XV secolo


I toponimi di un'antica piazza e di un antico palazzo del centro storico di Frattamaggiore ricordano alcuni avvenimenti successi alla fine del XV secolo e collegati con la presenza ebraica nel Regno di Napoli. Nel linguaggio popolare la piazza è ancora chiamata 'a chiazza r'o Vicario ed il palazzo è detto della Vicaria; sono diciture che persistono da oltre cinque secoli ed evocano storie e leggende nell'immaginario del paese.
A spiegare la provenienza di questi toponimi è il canonico Antonio Giordano rappresentante della storiografia napoletana dell'800, originario frattese e Bibliotecario della Reale Biblioteca Borbonica di Napoli. Nella sua monumentale opera di storia comunale (A Giordano, Memorie Istoriche di Fratta Maggiore, Stamperia Reale, Napoli 1834, pag. 119 e segg.) egli riporta alcuni brani delle Storie scritte in forma di Giornali di Giuliano Passero, cronista storico napoletano tra la fine del 400 e l'inizio del 500 (V. Passero Giuliano, Storie in forma di giornale pubblicate da Michele M.a Vecchioni, Napoli 1785, in 4° a fol. 56). I brani riguardano l'insediamento a Frattamaggiore del Tribunale della Vicaria, che fu costretto dall'infierire di un morbo pestilenziale a trasferirsi da Napoli in Provincia insieme con altre istituzioni del Regno. Per la stessa ragione la Corte si trasferì a Capua ed ad Aversa, la Sommaria si trasferì a Nola, e la Dogana si trasferì a Torre del Greco. Il cronista fa riferimento alla moria che travolse circa trentamila christiani e circa venticinquemila judei che all’epoca si trovavano a Napoli.


La notizia del Passero riportata dal Giordano si riferisce agli Ebrei che erano giunti a Napoli dopo l’espulsione dalla Sicilia e dalla Sardegna, isole che appartenevano al dominio spagnolo.
Sulle piste della ricerca storica che riguarda la presenza ebraica in Italia meridionale, si rinvengono fonti e documentazioni che riguardano la Puglia, la Calabria, la Sicilia, il Sannio e la Campania. In particolare in Campania la presenza delle comunità ebraiche è testimoniata nei diversi periodi storici ed in vari luoghi. Pozzuoli e l’area flegrea sono interessate dagli insediamenti ebraici fin dall’antichità cristiana (Atti degli Apostoli), come le aree bizantine e longobarde lo sono per il periodo altomedievale (Epistolario di papa Gregorio Magno). Dalla documentazione medievale, dal X al XIII secolo (Monumenta ducali, Chronicon monastici, Codici Diplomatici Normanno e Svevo) si evidenzia la presenza di floride comunità ebraiche e dei loro quartieri (giudecche) a Napoli, a Capua, a Salerno, ad Aversa e nell’area beneventana.
Altri riferimenti possono trarsi dalla storia moderna e dagli avvenimenti che portarono, tra XV e XVI secolo, tra espulsioni (decreto del 1542 del Vicerè Pedro De Toledo) ed accoglienze, ad un allontanamento degli ebrei dal Viceregno spagnolo di Napoli e alla formazione dei ghetti di Venezia e di Roma. Il regime borbonico favorì poi nel ‘700 il ritorno degli Ebrei a Napoli.



domenica 27 gennaio 2013

Aversa diocesi paolina


Durante l'Anno paolino (2008-2009), indetto da Benedetto XVI per celebrare il bimillenario della nascita di San Paolo, la Diocesi di Aversa fu inserita con qualche ritardo tra le Diocesi paoline dai responsabili del Progetto Culturale della CEI in rete. Aversa fu aggiunta alle tre (Siracusa, Reggio Calabria e Pozzuoli) precedentemente riconosciute per la segnalazione delle iniziative delle chiese locali accanto alle iniziative che si svolgevano a Roma. La motivazione per l'individuazione delle Diocesi paoline si legava al loro esser luoghi “ove san Paolo è passato o soggiornato”, e Aversa non risultava ufficialmente tra queste, pur essendo da secoli intitolata all'Apostolo.
Grazie ad una comunicazione storiografica al Servizio nazionale per il progetto culturale della CEI del sottoscritto che poneva la questione di un probabilissimo passaggio di San Paolo per il territorio diocesano antico, Aversa fu inserita tra le Diocesi Paoline d'Italia; e sono note le iniziative religiose e culturali come il Pellegrinaggio diocesano a San Paolo fuori le Mura e la Mostra “Sulla via di Damasco”.
Ripropongo, per un sempre doveroso approfondimento della storia della nostra Diocesi, il nocciolo di quella comunicazione che fu corredata di ampia bibliografia.

Questa comunicazione ha solo il fine di chiarire il perché avevo chiesto l’eventuale inserimento della Diocesi di Aversa tra le Diocesi paoline (quelle “dove San Paolo è passato o ha soggiornato”). Proprio per questo transito dell’apostolo Paolo avevo chiesto l’inserimento.
La diocesi di Aversa ha una espressa dedicazione al Santo perché l’antico luogo di Sancte Paule at Averze, sito originario della Cattedrale e della stessa Contea aversana fondata dai Normanni nel 1030, era la memoria paleocristiana e devozionale del passaggio di San Paolo per la diocesi scomparsa di Atella. Il sito si trovava sulla Via Campana Antiqua che, passando per Atella, congiungeva Pozzuoli a Capua per intercettare l’Appia antica che poi portava a Roma. Non v’era altra strada che al tempo di San Paolo portasse a Roma da Pozzuoli, dove egli era rimasto una settimana secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli (At 28, 13-14 ), essendo stata la via costiera Domiziana costruita qualche secolo dopo.
Quando nel 1053 fu istituito l'episcopato aversano, esso andava ad esercitare le sue attività su un territorio molto vasto che era stato teatro di molte vicende rilevanti dal punto di vista del cristianesimo. In esso ebbero luogo varie testimonianze e passioni di martiri dei primi secoli; ed esso rappresentò l'area della costellazione di antiche sedi vescovili contornate da numerose chiese sparse per le sue contrade.
A detta dell'Ughelli (1595-1670), abate cistercense ed autore che ampiamente trattò degli avvenimenti dell' Italia Sacra, la diocesi di Aversa fu composta con 4 antiche sedi scomparse:

"Aversana episcopalis dignitas quatuor in se episcopales sedes traxit: Atellanam, Liternensem, Cumanam, Misenatem " (1).

La diocesi rifondata non significò, infatti, la rifondazione del cristianesimo sul territorio. Esso permaneva nei suoi luoghi primordiali, nella santità dei suoi antichi martyria, nelle espressioni delle devozioni ataviche; e manteneva antichi riferimenti devozionali, pastorali e patristici, circa le origini e la diretta derivazione apostolica (2).
I riferimenti apostolici petrini e paolini, l'onore delle comunità dei primi secoli, le antichissime segnalazioni del Martirologio Geronimiano, le glorie memorabili e monumentali dei martiri locali perseguitati nell'epoca pre-costantiniana, furono caratterizzazioni del cristianesimo che continuarono a sussistere sul territorio e a mantenere operanti le radici e le origini della fede in questa parte della Campania.
Le devozioni a San Paolo l'Apostolo, a San Sossio il diacono di Miseno, a Santa Giuliana la cumana, a Santa Fortunata la patriense, a Sant'Elpidio e a San Canione vescovi dell'agro antico, si intrecciarono con le espressioni della venerazione alla Madre di Dio e con le celebrazioni delle santità emergenti. Questo intreccio caratterizzò il mantenimento dell'antica sacralità dei luoghi rinomati, del fondamento di nuove toponomastiche, dei legami forti con le altre antiche diocesi circostanti, come la capuana, l'acerrana, la nolana, la puteolana e la napoletana.
La toponomastica alto-medievale (3), tra i secoli VI e X, infatti, lungo le antiche direttrici viarie sorte in epoca romana nell'agro che sarà poi occupato dalla diocesi aversana, annovera tra "varia templa et monasteria" luoghi come “ecclesia S. Sossi in Silice", "Cella S. Sossii in Liburia", "Sanctum Paullum ad Averze", "sanctu Paulu at Averse", "ecclesia b. Fortunatae", "ecclesiam S. Elpidii".
La diretta derivazione apostolica paolina dell’episcopato atellano, e quindi di quello aversano, è stata una questione ampiamente trattata dagli storiografi che hanno individuato un vasto repertorio, documentario lapidario e monumentale favorevole. Tra le lapidi si riporta soprattutto quella con l’epigrafe:

EGO PAULO PR BF
[Ego Paulo Presbyter beneficium feci]

La lapide proveniva da una antica edicola diruta innalzata alla Beata Vergine della Bruna, ove esisteva anche un monumento ancora più antico dedicato a San Paolo apostolo. Essa nel 1737 fu infissa in un muro della sacrestia di Santa Maria di Atella, officiata all'epoca dai Padri di San Francesco di Paola. Furono questi Padri a recuperare l'iscrizione e a collegarla con l'ospitalità che il prete atellano aveva offerto all'Apostolo, quando questi sostò in Campania nel 61 d. C.
Molto probabilmente queste questioni sono ambiti di studio che si ripropongono con connotazioni occasionali, per cui non si affermano con una certa sistematicità. L’occasione dell’Anno Paolino può essere uno stimolo per una maggiore conoscenza, oltre che storica, anche spirituale della figura di San Paolo e della grande devozione locale esistente nei suoi confronti. 

Note
(1) Cfr. F. Ughelli, Italia sacra sive de episcopis Italiae et insularum adiacentum..., I-X , Venetiis 1717-1722.
in: G. Parente, Origini e vicende ecclesiastiche della Città di Aversa, I-II, Napoli 1857. (Vol I p. 54).
(2) Cfr. R. Calvino, Diocesi scomparse in Campania, Napoli 1969.
(3) La terminologia e i toponimi si evincono dallo spoglio di una consistente documentazione d'epoca registrata nelle antiche cronache monasteriali meridionali, come il Chronicon Cavense, Volturnense e Cinglese, nelle Storie, negli Annali, nei Codici Diplomatici e nei Monumenti archivistici più noti, come quelli di A. Di Meo, di B. Capasso, di A. Gallo e di atri Autori che a vario titolo ne hanno trattato.
Per le denominazioni riportate si confrontino:
F. M. Pratilli, De Liburia Dissertatio, in Historia Principum Langobardorum...,III, Neapoli MDCCLI.
A. Salzano, Memorie Istoriche della Città di Aversa e delle distrutte antiche città di Cuma, Atella, e Literno, I, Napoli 1829.
G. Parente, op.cit.
A. M. Storace, Ricerche storiche intorno al Comune di S. Antimo, Napoli 1887.
R. Calvino, op. cit.
E. di Grazia, Le vie osche nell'agro aversano, in Rassegna Storica dei Comuni (RSC) n. 5-6 (1969).
G. Corrado, Le origini normanne di Aversa, in RSC n.2 (1970).
M. Di Nardo, Il Duomo di Aversa, in RSC n. 4 (1970).
E. di Grazia, Topografia storica di Aversa, in RSC n.2 (1973).
G. Capasso, Afragola, Napoli 1974.
F. Provvisto, Cenni storici e biografici su S. Elpidio Vescovo e Confessore Patrono di Casapulla, S. Maria C.V. 1978.
G. Genoni, Il cippo romano di S. Arcangelo, Marcianise 1987.
F. E. Pezone, La via atellana, in RSC n.55-60 (1990).
F. Di Virgilio, Sancte Paule at Averze, Parete 1990.
L. Orabona, I Normanni la Chiesa e la Protocontea di Aversa, Napoli 1994.







sabato 26 gennaio 2013

Il ritratto storico e spirituale di Caterina Volpicelli santa napoletana

Il 22 Gennaio si celebra la festività liturgica in onore di Santa Caterina Volpicelli vergine e fondatrice. La presenza in Frattamaggiore da molti decenni di una Casa delle Ancelle del Sacro Cuore ha reso particolarmente solenne la celebrazione nella Basilica Pontificia di San Sossio ed ha stimolato questo approfondimento agiografico della figura della santa; ho così rivisto e ripercorso per un aggiornamento alcuni aspetti della sua storia e della sua spiritualità.

Il libro Caterina Volpicelli donna della Napoli dell’Ottocento di mons. Antonio Illibato, Archivista della Diocesi di Napoli, è un tomo di circa 600 pagine che pone il lettore a confronto con un contesto storico complesso e con una personalità affascinante. Esso è stato dato alla stampa nel 2008, nell'ultimo anno del decennio trascorso dalla beatificazione di Caterina (2001) alla sua canonizzazione (2009), e si comprende l'importanza del suo contributo alla conoscenza della figura della santa napoletana. Le rigorose pagine di storia scritte e documentate con il riferimento diretto alle fonti archivistiche e bibliografiche, riguardanti il quadro epocale ed il succedersi degli avvenimenti, costituiscono dimensioni ed approcci oggettivi che lasciano al lettore l’intuizione e la scoperta dell’anima della protagonista del libro.
Il taglio archivistico ed il procedimento della ricerca dell’autore consentono la tracciatura di un tratto storico del cattolicesimo napoletano tra prima e seconda metà dell’ottocento. Si tratta di un percorso conoscitivo, per molti aspetti inediti, che porta alla scoperta di un mondo, di una cultura e di un certo numero di personalità, relativamente note ma di grande rilevanza e significato nella chiesa cattolica europea dell’epoca.
La figura di Caterina Volpicelli, con lo sviluppo della sua opera religiosa, viene continuamente stagliata e rapportata ai vari momenti storici; e ne emerge una documentata storia personale della santa relazionata agli avvenimenti napoletani e ai riverberi europei, soprattutto italiani e francesi, della cultura e della spiritualità cattolica legata alla devozione del Sacro Cuore di Gesù.
Personalmente, attraverso la lettura del libro, ho colto l’opportunità che la ricerca storica ed archivistica, svolta da mons. Illibato intorno alla figura di Caterina Volpicelli e sulla Napoli dell’ottocento, ha offerto per la ricezione delle istanze proprie della evoluzione spirituale della protagonista. Una evoluzione che viene presentata e documentata per l’intero arco della vita di Caterina e relazionata con le varie età ed eventi significativi per lo sviluppo della sua personalità di donna di credente e di fondatrice. Si intuisce, dalla lettura documentata della oggettività storica, la storia dell’anima di Caterina: dalla inquietudine della giovanetta che vuole rimanere fedele alla sua vocazione religiosa ed impegnarsi nella vita sociale, attraverso le sperimentazioni di affinità, di scelte e di identificazioni con modelli di vita spirituale esterni durante l’età giovanile e matura, fino all’assunzione intima, ecclesiale e definitiva, dello schema nuovo ed autonomo di vita religiosa propostole, per lei e per le sue consorelle, dal cardinale Sisto Riario Sforza con il nome e la fondazione delle Ancelle del Sacro Cuore.

Nel giorno della canonizzazione di Caterina Volpicelli (1839-1894), il ritratto spirituale della santa si arricchisce dei tratti eucaristici descritti dall'omelia di Benedetto XVI pronunciata sul sagrato di San Pietro e si completa nella sua splendida definizione.
La spiritualità di Caterina Volpicelli, fondatrice delle Ancelle del Sacro Cuore, era già stata considerata dal cardinale Michele Giordano “tutta cristologica” , per il suo fondamentale riferirsi alla consacrazione al Sacro Cuore di Gesù. Si tratta di una particolare espressione della Volpicelli che aderì in maniera originale alla devozione che si sviluppò nel panorama della vita religiosa e della riflessione teologica che si delinearono nella cattolicità europea, a partire dal XVI secolo, sulla base dell’esperienza mistica di Santa Margherita a Paray-le-Monial.
Tale spiritualità ebbe anche eccezionali originalità mariane nell’esperienza di Caterina, la quale “nel Sacro Cuore” attinse sicuramente le energie per rendere operanti ed esemplari la carità e la direzione spirituale della sua Congregazione, ma anche “nella fede della Vergine” ella pose la speranza del suo agire e del suo servizio di “Ancella del Signore”. Un riferimento storico in tal senso fu l’originalità mariana della vocazione giovanile di Caterina, la quale amava nominarsi Maria Caterina e frequentava l’oratorio delle Sacramentine ove si venerava la Madre del Buon Consiglio, portando al suo polso la decina di un rosario di corallo per pregare anche nelle occasioni mondane.
Un luogo importantissimo della spiritualità di Caterina Volpicelli è rappresentato oggi dal Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei, ove il 18 maggio 2003 avvenne la celebrazione del 2° anniversario della sua beatificazione; e ove nello stesso anno il beato papa Giovanni Paolo II celebrò il Rosarium Virginis Mariae da lui arricchito dei Misteri della Luce. Riconducibile al luogo di Pompei è il riferimento alla santa amicizia che Caterina aveva con il beato Bartolo Longo fondatore del santuario mariano; una amicizia che si sviluppò nel contesto di una comunione di fede e di preghiera e che coinvolse anche molte altre personalità del cattolicesimo napoletano della fine dell’800 (es: il beato francescano Ludovico da Casoria, la contessa Marianna De Fusco, il medico santo Giuseppe Moscati, il card Sisto Riario Sforza). Caterina Volpicelli, che lo aveva ospitato nel suo palazzo a Materdei, iniziò Bartolo Longo alla devozione mariana con il dono della medaglia miracolosa, e questi la tenne sempre con sé e ricambiò il dono, sul finire della vita di Caterina, offrendole il suo crocifisso benedetto dal Papa. Anche all’origine della fondazione del Santuario mariano di Pompei si ritrova l’influenza della Volpicelli. Infatti, quando ebbe innalzato il Tempio del Rosario, Bartolo Longo non nascose l’ispirazione ricevuta dalla costruzione del Santuario del Sacro Cuore che Caterina aveva già eretto in Napoli come tempio per le sue Ancelle; ed il primo altare maggiore di marmo del santuario mariano fu proprio un dono della Volpicelli.
La spiritualità che diviene azione ed animazione ecclesiale, costruzione nella carità della comunità di preghiera e di condivisione fraterna delle problematiche del popolo, è il tratto dell'opera di Caterina Volpicelli indicato dal Cardinale Crescenzio Sepe in occasione del 125° anniversario della fondazione del Santuario napoletano del Sacro Cuore ( 21 dicembre 2008).
I tratti eucaristici della spiritualità della beata Caterina furono sottolineati direttamente da Giovanni Paolo II nell'omelia per il giorno della beatificazione in San Pietro (29 Aprile 2001):
La Beata Caterina Volpicelli dall’Eucaristia seppe trarre sempre quell’ardore missionario che la spinse ad esprimere la sua vocazione nella Chiesa, docilmente sottomessa ai Pastori e profeticamente intenta a promuovere il laicato e forme nuove di vita consacrata. Fu la prima “zelatrice” dell’Apostolato della Preghiera in Italia e lascia in eredità, specialmente alle Ancelle del Sacro Cuore, una singolare missione apostolica che deve continuare ad alimentarsi incessantemente alla fonte del Mistero eucaristico”.
Con le parole che Benedetto XVI ha dedicato alla santa napoletana nel giorno della canonizzazione, Domenica 26 aprile 2009, si completa il suo ritratto spirituale:
Testimone dell’amore divino fu anche santa Caterina Volpicelli, che si sforzò di “essere di Cristo, per portare a Cristo” quanti ebbe ad incontrare nella Napoli di fine Ottocento, in un tempo di crisi spirituale e sociale. Anche per lei il segreto fu l’Eucaristia. Alle sue prime collaboratrici raccomandava di coltivare una intensa vita spirituale nella preghiera e, soprattutto, il contatto vitale con Gesù eucaristico. E’ questa anche oggi la condizione per proseguire l’opera e la missione da lei iniziate e lasciate in eredità alle “Ancelle del Sacro Cuore”. Per essere autentiche educatrici della fede, desiderose di trasmettere alle nuove generazioni i valori della cultura cristiana, è indispensabile, come amava ripetere, liberare Dio dalle prigioni in cui lo hanno confinato gli uomini. Solo infatti nel Cuore di Cristo l’umanità può trovare la sua “stabile dimora”. Santa Caterina mostra alle sue figlie spirituali e a tutti noi, il cammino esigente di una conversione che cambi in radice il cuore, e si traduca in azioni coerenti con il Vangelo. E’ possibile così porre le basi per costruire una società aperta alla giustizia e alla solidarietà, superando quello squilibrio economico e culturale che continua a sussistere in gran parte del nostro pianeta.”
Molti altri riferimenti ed aspetti della spiritualità volpicelliana si ritrovano quindi nella complessa sua opera missionaria (anche etica, pedagogica e sociale), della quale sono continuatrici le Ancelle del Sacro Cuore di Gesù nei vari contesti della loro presenza ed attività.

Bibliografia:
AA.VV., Caterina Volpicelli nella cordata di santi dell’Ottocento meridionale, Napoli 1995
Antonio Illibato, Caterina Volpicelli donna della Napoli dell’Ottocento, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2008



martedì 22 gennaio 2013

Vita e culto di Sant'Antonio abate padre del deserto

Maestro dell'Osservanza, S. Antonio abate, XV sec.
Louvre, Parigi

Nel VI secolo, all’epoca di san Benedetto fondatore del monachesimo occidentale, già circolava da un secolo la Vita Antonii, opera primaria dell'agiografia cristiana scritta da sant'Atanasio per narrare la storia di sant’Antonio abate (250-356) che visse nel deserto egiziano per oltre 80 anni e legò la sua persona alla fondazione dell’ascetismo monastico cristiano dei Padri del deserto. La conoscenza dell'esperienza monastica di Antonio si era diffusa in tutto il mondo cristiano proponendosi come stimolo di conversione religiosa e come modello di vita spirituale per sant’Agostino, per lo stesso san Benedetto e per molti altri uomini e santi.

Dalla Vita si apprende che Antonio nacque intorno al 250 in Egitto a Coma, oggi Qemans, città posta presso Eracleopoli sulla riva occidentale del Nilo. Egli visse nel ricco ambiente familiare l’infanzia e l’adolescenza con semplicità e purezza. Rimasto orfano a 20 anni ed ispirato dalla lettura del Vangelo decise di abbandonare ogni ricchezza e di intraprendere una vita di povertà alla sequela del Signore. Si ritirò presso la sua città, in un luogo solitario, come facevano molti cristiani per sfuggire alle persecuzioni. In quel luogo, seguendo in un primo momento un altro monaco, Antonio si diede alla preghiera ed al lavoro e meditò profondamente le Sacre Scritture. Poi si condusse in perfetta solitudine, ed in quella condizione ebbero inizio le tentazioni che egli combatteva e vinceva con la preghiera e con il segno della croce di Cristo. A 35 anni egli si inoltrò per il deserto e si incamminò verso i monti del Pispir, in direzione del Mar Rosso. Con quel percorso, che si svolse tra i sepolcri e le rocche abbandonate, tra le insidie dell’ambiente e degli animali, nacque il fuoco dell’ascetismo: “una fiamma che nessun’acqua poté estinguere”.


Frate Angelico, La Tebaide, XV sec. - Uffizi, Firenze
Antonio si fermò presso un fortilizio diroccato, luogo orrido e nido di serpi ma con il vantaggio di trovarsi presso una fonte. Vi stette nascosto per alcuni anni, aiutato da un monaco che ogni tanto lo riforniva con viveri lanciati dall’esterno delle mura. La solitudine di Antonio divenne esemplare per molti altri monaci ritirati nel deserto che richiesero il suo insegnamento e la sua guida. In questo modo il santo eremita, chiamato ad essere abate, organizzò alcuni monasteri intorno al suo eremo presso la riva del Nilo e a ridosso delle montagne circostanti.
Durante la sua guida abatiale nel 307 Antonio ebbe la visita di sant’Ilarione eremita della Palestina, e nel 311, durante la persecuzione di Massimino Dacia, lasciò il deserto per recarsi ad Alessandria e confortare i martiri con la sua presenza. Dopo quella esperienza decise di non tornare più al suo eremo e si incamminò con alcuni carovanieri verso la Tebaide per raggiungere un luogo ancora più lontano ed adatto alla sua ascesi nella solitudine. Raggiunse così, dopo tre notti e tre giorni di cammino, un luogo situato tra le montagne a trenta miglia dal Nilo, dal quale si poteva vedere il Sinai. Là egli visse il resto della sua lunghissima vita, organizzando il suo eremo ed il suo orto in un ambiente spiritualmente e fisicamente difficile ed aspro. I monaci del Pispir riuscirono a ritrovarlo e fu ancora possibile per lui avere contatti con le comunità monastiche e con la civiltà circostante. Da quel luogo egli ebbe occasione di muoversi ancora per andare alla ricerca di Paolo, il primo eremita del deserto come racconta san Girolamo, e di recarsi ancora una volta ad Alessandria poco prima della sua morte, su invito del vescovo Atanasio suo amico e discepolo, per confutare la dottrina ariana. Prima di morire egli chiese a Macario e ad Amathas, unici monaci a cui aveva concesso di vivere presso il suo eremo, di non rivelare il luogo della sua imminente sepoltura al fine di terminare in umiltà e senza celebrazioni la sua esistenza terrena.

S. Antonio abate. Icona devozionale
Grazie alla divulgazione della Vita scritta da sant’Atanasio (Atanasio, Vita Antonii) la conoscenza di Antonio si diffuse in tutta la cristianità ed il suo culto quasi subito varcò i confini dell’Egitto estendendosi in Oriente e in Occidente. La sua festa fu istituita nel V secolo in Palestina dall’abate Eutimio e venne segnata al 17 Gennaio nel Martirologio Geronimiano (V secolo) e nel Martirologio Storico di Beda il Venerabile (IX secolo). La devozione per il santo, che ebbe dai monaci l’appellativo di ‘magno’, assunse caratteri fortemente popolari ed egli fu considerato protettore potente contro i contagi e contro l’herpes zoster (detto dal volgo fuoco di sant’Antonio). A lui vennero intitolate chiese, congreghe ed edicole votive, ed il suo nome fu abitualmente imposto a moltissimi neonati.
Nel 561, grazie ad una rivelazione divina, vennero scoperte le sue reliquie e trasferite nella chiesa di San Giovanni battista ad Alessandria. Nel 635, durante la conquista araba, le sue reliquie furono portate a Costantinopoli ove stettero fino al tempo delle crociate, fino a quando un cavaliere le portò a Motte-Saint-Didier in Francia e furono riposte in una chiesa consacrata da papa Callisto II nel 1119. Qualche decennio prima era già stato istituito l’Ordine dei monaci di Sant’Antonio. Nel 1491 le reliquie di sant’Antonio abate furono traslate a Saint Julien situata vicino ad Arles. Intorno alle reliquie di Antonio conservate nella Chiesa di Saint-Antoine de Viennois si sviluppò la devozione principale che riguardava la guarigione dal fuoco di Sant’Antonio. Il numero dei malati che ricorrevano al santo taumaturgo era così elevato che fu necessario costruire apposite strutture ospedaliere ed impegnare l’ordine degli Antoniani per l’assistenza e la cura dei devoti pellegrini. Il simbolo di quell’Ordine fu la cruccia a forma di T che il santo portava per appoggiarsi nella sua vecchiaia, ed una pratica che poi si diffuse in tutte le contrade d’Europa fu quella di allevare in libertà dei maialini, con al collo un campanello, che venivano nutriti dalla popolazione.
Il fuoco, il bastone, l’animale, il saio monastico, l’assistenza, divennero i simboli devozionali principali legati al culto di sant’Antonio abate, e sono ancora oggi presenti nella tradizione religiosa popolare. I falò di sant’Antonio abate che si accendono in moltissimi paesi, con il contributo di tutti nella raccolta delle fascine e con la divisione quasi sacrale delle ceneri residue, sono una pratica caratteristica ed affascinante della tradizionale vita comunitaria; così come lo sono la devozione, importantissima in molti luoghi, di portare gli animali dell’aia con nastrini e fiocchi a ricevere la benedizione ecclesiastica, e la protezione che il santo assicura alle attività agricole e alla salute degli animali domestici. Il patronato devozionale ed il significato esemplare del culto di sant’Antonio abate nella moderna civiltà si può considerare anche di carattere ecologico e di valorizzazione dei corretti rapporti dell’uomo con la natura. Sant’Antonio abate è celebrato come patrono dei vigili del fuoco, dei fornai, dei pizzicagnoli, dei macellai, dei salumieri, degli animali domestici e del bestiame. La tradizione vuole pure che la devozione antoniana si sia ampiamente diffusa grazie alla promessa che lo stesso Gesù aveva fatto al santo eremita per premiarlo con la fama delle sue aspre lotte combattute nella solitudine.

Fonti in
P. Saviano F. Pezzella, Sant’Antonio abate…, Pro Loco ‘F. Durante, Frattamaggiore 2001


venerdì 18 gennaio 2013

Da Vienna a Frattamaggiore: la Via Severini


Prologo - La motivazione storica e spirituale dell'evangelizzazione del Norico è alla base della considerazione di San Severino come uno dei Santi Patroni dell'Austria e della Baviera. La stessa motivazione, estesa alla sua opera sociale e di soccorso alle popolazioni in difficoltà della frontiera danubiana dell'impero romano, in epoca recente lo ha fatto proclamare patrono particolare della Caritas austriaca.

La Via Severini, concettualmente legata al pellegrinaggio che oggi si fa verso la meta religiosa del santuario che custodisce le spoglie del monaco evangelizzatore, attraversa la storia e i luoghi che da Vienna a Frattamaggiore sono stati testimoni e custodi della sua opera e del suo culto.

1. Evangelizzazione del Norico - La Vita Sancti Severini fu scritta all'inizio del V secolo dall’abate Eugippo in 46 Capitula che ripercorrono le tappe della evangelizzazione dei popoli del Norico (Noricum: regione dell'impero romano corrispondente alle odierne Austria e Baviera), narrano la vicenda spirituale del santo monaco evangelizzatore fino alla sua morte, e descrivono la traslazione in Italia al seguito di Odoacre.
Da questa Vita si apprende che Severino nacque intorno al 410 e in giovinezza fu monaco contemplativo in oriente; si pensò che fosse di origine africana, ma la bontà del suo linguaggio latino lo fece ritenere figlio di nobile romano.
Nonostante la scarsità dei documenti circa l'origine e la giovinezza di Severino, la critica storica gli riconosce una formazione dottrinale ed ascetica realizzata al contatto con il pensiero dei Padri orientali e con il monachesimo basiliano.
Mentre era eremita Severino maturò la vocazione che lo portò a trasferirsi nel Norico e a svolgere opera di apostolato tra le genti di quella regione. Nel 454, ormai uomo maturo e “come nuovo Mosè”, egli raggiunse quelle terre che avevano subito le devastazioni di Attila, morto l'anno prima, e che vedevano il cristianesimo affermarsi con difficoltà nel miscuglio delle religioni praticate dalle genti della frontiera del Danubio.
Nella Romania danubiana esisteva una vita religiosa cristiana basata su una rete di monasteri e chiese sparse che aspettavano una guida unificante. Severino si presentò dotato di grande fascino e con un potere profetico e carismatico che aveva del miracoloso. Fu riconosciuto come uomo di Dio dalle genti barbare ed avviò la sua predicazione ispirata alla dottrina San Paolo e al desiderio del Regno di Dio; basò la sua opera soprattutto sulla carità verso i fedeli e verso gli stessi barbari.
La sua prima tappa fu Asturis (Klosterneuburg), la più orientale città del Norico. Di lì il suo impegno fu sempre più ampio e si diffuse per tutto il Norico occidentale, giungendo fino alla Rezia. A Favianes (Mautern) Severino fondò un monastero che elesse come sua sede principale, e a 5 miglia di distanza si costruì una celletta solitaria con la speranza di vivere in ritiro e contemplazione. Ma gli eventi lo costringevano ad agire nell'opera sociale e di soccorso alle popolazioni. Da Favianes la sua opera, sviluppata tra Vindobona (Vienna) e Passavia (Passau in Baviera), si estese con sistematicità per tutto il Norico e raggiunse la Drava.
Per realizzare la sua opera religiosa Severino pensò di fondare molti nuclei monastici, e cercò di dirigere la vita dei monaci con regole ben stabilite, basate sul consiglio sulla disciplina e sulla provvisorietà della dimora terrena; predilesse l'intervento colloquiale rispetto a quello formale e scritto proprio di altre Regole monastiche. Senza sosta egli ricordava ai suoi monaci che il distacco dalle cose del mondo era un bene irrinunciabile per la vita monastica.
La Regula Magistri precorritrice della Regula Benedicti fu sicuramente ispirata all'insegnamento di Severino e, nell'attribuzione all'abate Eugippo suo discepolo ed agiografo, fu scritta nell'ambito del monachesimo campano formatosi intorno al suo santuario napoletano.

2.Traslazione in Italia - Sei anni dopo la morte di Severino, nel 488, Odoacre ordinò l'evacuazione dei romani dalla Pannonia, regione contigua al Norico, e li fece trasferire in Italia per sfuggire le invasioni barbariche. I discepoli del santo, guidati dall'abate Lucillo suo successore e memori della sua volontà di far trasportare la sua reliquia in Italia, prepararono un'arca ed aprirono il suo sepolcro nel convento “juxta Fabiana”. Essi prelevarono il corpo ancora intatto e, tra il canto di salmi, lo posero nell'arca e si avviarono in Italia.
Si ebbe così la prima traslazione del corpo del santo, da Faviana al Montefeltro (altri dicono: Feltro, Monte Faletro o Feretro). Si narra che lungo la strada lo spirito di san Severino era di guida e di difesa per il seguito di monaci e di genti; e numerosi furono i miracoli che operò ad ogni tappa e lungo la via.
Il corpo sostò a Montefeltro fino al 492; fino a quanto il papa Gelasio non propose che fosse traslato a Napoli e deposto nel Castro Lucullano. Si ebbe così la seconda traslazione della reliquia di San Severino, che fu curata dall'abate Marciano, successore di Lucillo, e con il beneplacito di San Vittore, vescovo di Napoli. Fino ad un ventennio prima il Lucullano era stata la prigione dell'ultimo imperatore, Romolo Augustolo, deposto da Odoacre. Poi si preferì dare una destinazione più significativa a quell’edificio. Il Castro Lucullano si trasformò così nella sede di una comunità monastica, in un complesso di edifici sacri intorno alla tomba di san Severino che fu predisposta da una nobildonna aristocratica, Barbaria, forse la madre del deposto ultimo imperatore.

3. Monastero di Napoli - Nel 599 il papa Gregorio Magno indirizzava una lettera al vescovo san Fortunato di Napoli, al quale chiedeva di donare alcune reliquie di santa Giuliana e di san Severino – “sanctuaria beatorum Severini Confessoris et Julianae martyris” - alla nobildonna Januaria, la quale intendeva erigere un oratorio ai due santi. In altra lettera a Pietro suddiacono, lo stesso papa Gregorio espresse la volontà di consacrare a san Severino una chiesa in Roma e di ricevervi alcune reliquie di lui.
Nel X secolo si ebbe la terza traslazione del corpo del santo, dal Castro Lucullano al monastero napoletano urbano che venne a lui dedicato. Il monastero urbano era stato voluto da Atanasio II, vescovo di Napoli, che raccolse un gruppo di 15 monaci benedettini in una chiesetta situata al Vicus Missi, poi divenuto Vicus monachorum, che era stata fondata tra l'845 e l'847 dal nobile napoletano Adriano. La cronaca della traslazione fu scritta da Giovanni diacono negli Acta translationis Sancti Severini Abbatis. I saraceni avevano imperversato per le coste meridionali ed i napoletani furono costretti a distruggere in 5 giorni il Castro Lucullano, dove era venerato il corpo di san Severino. L'abate del monastero urbano chiese il corpo del santo al vescovo di Napoli Stefano III e al duca di Napoli Gregorio IV. La concessione di questi due personaggi consentì la traslazione che si realizzò il 10 settembre del 902 in pompa solenne con la presenza del Vescovo dei Chierici del Duca della nobiltà e con grande concorso di popolo. Giovanni diacono nella sua cronaca narra anche del prodigio di una pioggia di stelle che aveva accompagnato la notizia della morte del capo degli invasori saraceni.
La cripta del convento benedettino napoletano accolse le spoglie di San Severino, ed i monaci le tennero in grandissima venerazione. Grazie ai benedettini la memoria del santo monaco fu celebrata prima nei martirologi antichi come quello del Venerabile Beda, ed estesa poi in ogni contrada italiana ed europea.
Per circa nove secoli fino al 1807, epoca della soppressione degli ordini religiosi nel periodo napoleonico, le spoglie di san Severino riposarono nella cripta accanto alle spoglie del martire san Sossio traslate dai monaci dalla basilica di Miseno nella seconda metà del X secolo. In questo lunghissimo tempo il culto e la devozione del santo Abate, considerato grande precursore dell'ordine di San Benedetto, non fu separato da quello di san Sossio, e seguì le vicende storiche del monastero napoletano.
La presenza e l'importanza del Monastero dei Santi Severino e Sossio nelle vicende del Regno di Napoli, dal periodo bizantino del X secolo al periodo borbonico del XIX secolo, sono testimoniate a vari livelli da privilegi ed influenze culturali notevoli. Il monastero fu ritenuto da regnanti e popolari come un centro di religiosità, di arte e di dignità civile. L'abate e i suoi monaci erano tenuti in gran conto dalle dinastie e presenziavano nei consigli della nobiltà e nella gestione di vasti territori, diffondendo in ogni luogo la fama la devozione e la toponomastica legate al culto dei due santi.
A lungo la devozione popolare napoletana ha attribuito alla preghiera fatta sulla tomba di San Sossio e di San Severino la possibilità di liberare le anime del Purgatorio; e per secoli lo stemma del monastero ha contenuto la palma del Martire e il bacolo pastorale dell'Abate. Oggi il monastero è sede dell'Archivio di Stato di Napoli.

4. Basilica di Frattamaggiore - L'ultima traslazione del corpo del Santo, quella da Napoli alla Parrocchiale di Frattamaggiore, fu voluta dal frattese arcivescovo Michele Arcangelo Lupoli, il quale intese sottrarre le reliquie alla spoliazione in atto nelle chiese napoletane durante il periodo napoleonico quando furono soppressi gli ordini religiosi.
Le vicende della ricognizione del corpo e della sua traslazione sono le stesse che si raccontano per la traslazione di San Sossio, patrono di Frattamaggiore. Esse sono raccontate negli Acta inventionis Sanctorum corporum Sosii Diaconi ac Martyris Misenati et Severini Noricorum Apostoli, scritti nel 1807 dall'illustre prelato.
Attualmente le sacre spoglie del Santo patrono dell'Austria e della Baviera riposano nella Basilica Pontificia di Frattamaggiore in una magnifica cappella, ancora accanto alle spoglie di San Sossio. Ogni anno in questa città della Campania gruppi di austriaci e di studiosi del medioevo rinnovano, con la loro visita alla reliquia di San Severino, la devozione a questo grande santo mai dimenticato. 

Bibliografia: 
Pasquale Saviano, San Severino, Tip. Cirillo, Frattamaggiore 1995

Portale della meta religiosa frattese


sabato 12 gennaio 2013

Il dialogo tra credenti e non credenti in Italia: la “perlustrazione” di Giorgio Napolitano

Fonte: quirinale.it

E' stata un'esperienza di grande significato poter ascoltare il ragionamento del Presidente della Repubblica Italiana durante l'incontro “Dio, questo sconosciuto. Dialogo tra credenti e non credenti" svoltosi ad Assisi il 5 ottobre del 2012 nell'ambito dell'iniziativa vaticana del Cortile dei Gentili.
L'incontro seguito da migliaia di presenti e da milioni di spettatori è stato moderato da Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, e si è incentrato sul dialogo tra il Presidente Giorgio Napolitano ed il Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.
Giorgio Napolitano ha motivato l'approccio storico-politico del suo intervento come il più congeniale alla sua personale ricerca di risposte sul mistero e sulla fede, e come necessario per esprimere la sua riflessione di Presidente degli Italiani tesa a rappresentare e ad unire insieme le posizioni dei credenti e dei non credenti. Ha così svolto una profonda disamina di idee e di parole recuperate dal pensiero e dalla cultura politica degli anni della Repubblica a partire dall'epoca della Costituzione.
Nell'accoglienza dei valori di una “antropologia di base”, concetto mutuato dal dialogo con il cardinale Ravasi, e nel riconoscimento di “Dio presente nel mistero del mondo e dell'animo umano”, il luogo della devota tradizione religiosa francescana si è disposto all'ascolto del magistrale discorso laico del Presidente della Repubblica.
Dalla sua “rapida perlustrazione” sono emersi spunti interessantissimi ed approfonditi di una cultura tutta italiana che ha riconosciuto i caratteri sacrali della solidarietà e della convivenza civile e che, con le sue proposte e le sue analisi, secondo le parole di Napolitano, ha espresso il senso di misura e di rispetto che ha caratterizzato l'atteggiamento di personalità tra le maggiori del mondo laico italiano verso la sfera della fede e il fatto religioso”.
In riferimento al dibattito sulla religiosità avvenuto in Parlamento nella fase costituente, le personalità di varia provenienza ideologica indicate da Giorgio Napolitano sono state Leopoldo Elia dossettiano e costituzionalista, Giorgio la Pira dossettiano e deputato costituente, Palmiro Togliatti deputato comunista, Piero Calamandrei deputato socialdemocratico, Francesco Saverio Nitti senatore, Concetto Marchesi deputato comunista, Alcide De Gasperi.

Fonte: cortiledeigentili.com
Per l'esplicitazione delle ragioni della sua personale riflessione sul mistero di Dio e sulla fede, Giorgio Napolitano ha fatto riferimento al pensiero dei filosofi Benedetto Croce e Norberto Bobbio, del narratore Thomas Mann. E non ultimo al pensiero di Benedetto XVI, ricavando dal discorso di Regensburg l'intento del Pontefice di "superare la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento", di "dischiudere ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza", così che possano "ragione e fede ritrovarsi unite in modo nuovo".
Nel finale del suo discorso, auspicando lo sviluppo del senso del "bene comune", Giorgio Napolitano ha indirizzato il suo omaggio allo “spirito di Assisi” che ha reso possibile l'incontro: “Abbiamo bisogno in tutti i campi di apertura, di reciproco ascolto e comprensione, di dialogo, di avvicinamento e unità nella diversità. Abbiamo bisogno, cioè, dello spirito di Assisi”.

Il discorso del Presidente sul portale del Quirinale
Il video dell'incontro sul portale del Cortile dei Gentili