giovedì 14 settembre 2023

RATTOPPI FRANCESCANI DELLA SOCIOLOGIA DI DE MASI


Con Peppe, Alessio ed Elio, fui tra i 500 studenti che negli anni ‘70 del secolo scorso seguirono le lezioni del professore Domenico De Masi alla Facoltà di Sociologia dell’Università ‘Federico II’ di Napoli. L’esercizio dell’apprendimento dei Metodi e tecniche della Ricerca Sociale, disciplina allora da lui insegnata, prevedeva la realizzazione di una ricerca svolta da vari gruppi sul tema della marginalità sociale nella città di Napoli. Noi quattro frattesi riuscimmo a formare un gruppo locale e a svolgere il compito realizzando la ricerca sul territorio della nostra Frattamaggiore, città dell’interland napoletano. Piacque al Professore la nostra ricerca ritenendola molto valida e valutandola con lode nella sua unicità, ma sottraendo un punto al 30 che che ognuno di noi avrebbe meritato singolarmente. Volle farci seraficamente capire la maggiore importanza del lavoro comunitario rispetto a quella delle aspettative personali.

Il professor De Masi è recentemente scomparso, a 85 anni, e i tratti della sua personalità, della sua storia e della sua cultura, sono stati evidenziati dalle numerose commemorazioni che ne hanno evidenziato il ruolo di sociologo esperto e di intellettuale attento; profetico conoscitore delle dinamiche della società, storica e contemporanea, nei suoi orientamenti e nei suoi disorientamenti. 

Un pensiero umanistico scientifico, teorico ed operativo, il suo, capace di illuminare, di spiegare e di rendere comprensibile la complessità delle vicende sociali, economiche politiche e culturali; ancorché capace di proporre interventi intelligenti e risolutivi per le problematiche più cogenti dell’umanità (lavoro, povertà, felicità). 

Una conoscenza della biografia e dell’opera sociologica di Domenico De Masi è resa possibile da testimonianze molteplici di persone e dalla comunicazione delle sue ricerche affidata all’università, ai media, al portale personale in rete (domenicodemasi.it) e ai libri numerosi da lui scritti. 

Il fondamentale approccio storico-antropologico allo studio della sociologia trova una significativa sistemazione nei suoi libri che riguardano i modelli di vita dei vari popoli e delle varie culture (Mappa Mundi), e le modalità del lavoro nella società post-industriale (Ozio Creativo). 



Il professore De Masi si professava non credente ma era profondamente interessato alla problematica dell’umanesimo religioso. Durante la sua esperienza di Presidente organizzatore del Festival della Musica di Ravello aveva allacciato un rapporto di amicizia con l’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, il quale gli fece dono del progetto dell’Auditorium-Belvedere; ed aveva stabilito un dialogo profondo con Padre Enzo Fortunato, di stanza a Scala, attuale direttore della Sala Stampa del Sacro Convento di Assisi. 

In particolare l’amicizia con il padre francescano è stato il contesto che ha caratterizzato una certa collaborazione giornalistica di De Masi con il portale del Convento di Assisi (sanfrancescopatronoditalia.it).

Nella sua commemorazione di De Masi padre Enzo Fortunato parla dell’amore per gli ultimi che porta il sociologo ad avvicinarsi spiritualmente alla figura di San Francesco e ad amare Papa Francesco: a commuoversi dinanzi a i rattoppi della tonaca del Santo e a condividere il pensiero del Papa sulla cultura dello scarto.

Insieme con gli spunti della commemorazione di padre Enzo propongo una spigolatura sugli assunti sociologici di un non credente che ritiene di condividere fortemente il modello cattolico.

LA COMMEMORAZIONE DI PADRE ENZO. Un intellettuale marxista e ateo, che ha sempre riflettuto sui cambiamenti epocali nel mondo del lavoro tardocapitalista. E qui fu il nostro punto di incontro. Ci sono amicizie che nascono da una contingenza, ma si rivelano con il tempo necessarie. È, questa, la storia della mia amicizia con Domenico De Masi, il grande sociologo che conobbi oltre vent’anni fa a Scala in Costiera Amalfitana. Viveva infatti tra Roma e Ravello, paese che gli deve tantissimo: "Mimmo", come lo chiamavano gli amici, è stato un instancabile organizzatore culturale, anima dello storico Festival della Musica, che contribuì a rafforzare e a rilanciare su piani diversi (l’auditorium Niemeyer ne è uno degli esiti più significativi). Ma grande era il suo debito verso Ravello, che lo ispirò certamente nel suo libro sull’ozio creativo. Un intellettuale marxista e ateo, De Masi, che ha sempre riflettuto sui cambiamenti epocali nel mondo del lavoro tardocapitalista. E qui fu il nostro punto di incontro. In quei cambiamenti, da studioso, evidenziava lo sfruttamento degli ultimi; ma, da politico, nel senso più nobile del termine, provava a immaginare proposte concrete e, a volte, rivoluzionarie per combatterli. È stato l’ispiratore del reddito di cittadinanza e lo ha difeso strenuamente anche mentre lo cancellavano. L’amore per gli ultimi ha reso necessaria la nostra amicizia e lo ha portato a scoprire prima San Francesco e poi il nostro Papa, che amava moltissimo. Era tra gli ospiti più affezionati del convento di Assisi, e amava pranzare alla mensa con i frati. Insieme all’altro grande amico scomparso, Philippe Daverio, li ricordo incantati fino a tarda notte dinanzi agli affreschi di Giotto e Cimabue. È lì, in quell’atmosfera di spiritualità unica, che si apriva a quelle domande sulla fede che ho avuto l’onore di accogliere. Domande ravvivate dalla passione per Papa Francesco, dalla sua provenienza, quell’America Latina, dove le diseguaglianze sociali sono più scandalose che in Europa (di qui la sua stretta amicizia con il presidente Lula). E se il comunismo sapeva distribuire la ricchezza, ma non produrla, e il capitalismo sa produrre la ricchezza, ma non distribuirla, la sfida consapevole del Papa cominciava proprio nel luogo della crisi delle ideologie. La sfida di condurre "inflessibilmente il popolo cristiano sulla via della giusta redistribuzione della ricchezza, del lavoro, del sapere, del potere, delle opportunità e delle tutele". Sono alcune delle parole che De Masi ha scritto per noi francescani, in una delle innumerevoli occasioni di collaborazione. La più intensa? Dinanzi alla tonaca di san Francesco, quando si commosse scrutando i tanti rattoppi che ne mantenevano unito il tessuto. "Abbiamo perso la capacità di rattoppare, buttiamo via tutto e ricompriamo oggetti nuovi", questo il suo amaro commento. Così il mio caro amico ateo ritrovava nei gesti del Santo di Assisi il suo pensiero e insieme l’intuizione del passo e del cammino di un’umanità a venire. 



De Masi: Dirsi Cattolici



De Masi: Dalle interviste francescane


PREGHIERA. Anche basiliche e parrocchie hanno dovuto chiudere le loro porte ai fedeli. Qual è il ruolo della Chiesa in questo periodo di fragilità collettiva e come può essere presente a distanza di sicurezza? 

Si può anche"telepregare"! Ognuno è solo con Dio in qualsiasi momento, alla preghiera corale si può supplire con momenti di raccogliemento individuale e il fedele può agire in nome di Dio con buone azioni rivolte ai più fragili e agli anziani: in questo periodo ce n’è particolare bisogno. Non ripetiamo l’errore del Cardinale Borromeo nei Promessi sposi, che per scongiurare la peste organizzò una processione e si rivelò fatale per il contagio. 


BENEFICENZA. Nel messaggio di Bergoglio per la V Giornata Mondiale dei Poveri, leggiamo: “[...] un gesto di beneficenza presuppone un benefattore e un beneficato, mentre la condivisione genera fratellanza. L’elemosina, è occasionale; la condivisione invece è duratura. La prima rischia di gratificare chi la compie e di umiliare chi la riceve; la seconda rafforza la solidarietà e pone le premesse necessarie per raggiungere la giustizia”. 

Questo testo rappresenta una svolta straordinaria, epocale. Supera il concetto di carità che ha dominato la società, soprattutto nel medioevo, dove l’elemosina era il modo in cui il ricco si assicurava un posto in paradiso. In questa ottica il povero aveva un ruolo cruciale, necessario: come faceva il ricco ad andare in paradiso senza un povero a cui dare l’elemosina? Devo dire che è una svolta epocale anche nell’azione della Chiesa attuale. L'Italia ha introdotto nel 2019 il Reddito di Cittadinanza. Ad ogni nucleo familiare lo Stato assicura un reddito, non molto, ma un qualcosa che ti permette di avere un minimo di sicurezza. Ecco, mi sarei immaginato una crociata, soprattutto da parte dei cattolici, affinché questa manovra fosse applicata per bene. Per esempio le associazioni potrebbero aiutare i senzatetto ad ottenere un domicilio simbolico, come ha fatto l’ex Sindaco di Roma, senza di esso non è possibile ottenere il Reddito di Cittadinanza. Al contrario ho visto troppo spesso che viene preferito portare una “minestra calda”, che rischia di diventare elemosina fine a se stessa. Tempo fa parlavo con un Parroco della mia zona, gli ho proposto di aiutare i senza fissa dimora ad ottenere il Reddito di Cittadinanza, mi ha risposto che «non crede a questi aiuti statali». Perché portare solo una minestra calda quando potresti aiutare un bisognoso ad ottenere un’entrata mensile che gli permetterà di emancipazzarsi? Questo modo di agire non rappresenta il volere di papa Francesco che vuole la condivisione. Il Reddito di Cittadinanza va in questa direzione: lo Stato utilizza le tasse dei “ricchi” per aiutare i poveri, questa è condivisione. Dobbiamo passare dalla carità alla condivisione. L’elemosina rischia di essere umiliante per chi la chiede, con il reddito ricevere un aiuto diventa un diritto e non più umiliazione. Ad oggi ci sono milioni di persone che non hanno un reddito, nonostante i mezzi ci siano. Poco tempo fa parlavo con il presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, il quale mi ha riferito di un possibile accordo con la Comunità di Sant’Egidio, che conosce molto bene la povertà, per riuscire a intercettare questi senzatetto. Dal mio canto gli ho proposto di mettere in strada una roulotte che vada in giro la notte e intercetti i barboni per fargli fare le pratiche per ottenere il Reddito di Cittadinanza. 

L’antropologo Marcel Mauss nel suo “Saggio sul dono”, ci dice che il dono non obbliga il donatore alla restituzione di un qualcosa, ma c’è al massimo un obbligo morale alla restituzione... 

Quando un dono è festoso, senza doppio fine, per esempio ad un amico, un nipote, è un conto. Quando invece è rivolto verso un indigente allora diventa carità, elemosina. Quest’ultima, come ci ricorda papa Francesco, rischia di gratificare chi la compie e di umiliare chi la riceve, per me è sempre umiliante. 


MODELLO CATTOLICO. Qual è il problema dal mio punto di vista? È molto più generale: noi viviamo in una società postindustriale. Tutte le società precedenti, il Sacro Romano Impero, i grandi Paesi protestanti e cattolici del ‘600, i Paesi liberali dell’800, la Russia sovietica e i Paesi comunisti, tutte le società precedenti a questa nostra sono nate su un preesistente modello teorico. Il Sacro Romano Impero è nato sulle idee del Vangelo e dei Padri della Chiesa, gli Stati Protestanti dell’Europa Centrale si sono basati sulle idee di Lutero; gli Stati liberali su quelle di Smith e Montesquieu, la Russia e i Paesi comunisti sulle idee di Marx e Engels. 

La nostra attuale società non ha un modello teorico di riferimento, è nata per germinazione spontanea sotto la spinta del progresso tecnologico, della globalizzazione, dei mass media e della scolarizzazione diffusa; sono elementi che hanno contribuito alla nostra società postindustriale, che però non ha un modello di riferimento. Quando manca un modello a cui riferirsi non sappiamo cosa fare, come distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il buono dal cattivo; non abbiamo elementi di discrimine e come dice Seneca: “nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove vuole andare.” Anche noi non sappiamo dove vogliamo andare, non lo sa l’Europa, ed è per questo che Conte ha convocato questi Stati generali da cui si possono avere dei tasselli del mosaico che manca, non c’è un disegno complessivo del mosaico. Questo disegno non lo ha Conte, non lo ha Mattarella, Putin o Trump, la Merkel. L’unico capo di Stato che in questo momento ha un modello di riferimento è papa Francesco, però si tratta di un modello che, naturalmente non tutti condividono: lo condividono i cattolici e alcuni, che come me, non sono credenti, ma apprezzano tale modello. 


PERDONO. Il credente è convinto che, dopo la morte, lo attende la vita eterna; invece il non credente pensa che, dopo la morte, non ci sia altra vita. Dunque, un credente che perdona lo fa sapendo che il suo atto di generosità sarà premiato nella vita eterna con un trattamento di riguardo; nel suo perdono c’è un do ut des. 

Nel Nuovo Testamento la parola “aphiemi” (rimettere i debiti e i peccati) è usato 142 volte. Dice il Padre nostro (Matteo, 6,12): “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. In altri termini, il credente perdona chi gli ha fatto del male sperando che, a suo tempo, anche Dio diventi generoso con lui. 

Il non credente, invece, perdona per pura generosità, senza attendersi nessun corrispettivo. Per il non credente il perdono è un atto d’amore fine a se stesso. Ma, allora, perché perdona? Lo fa perché convinto che entrambi – debitore e creditore – sono partecipi della medesima natura umana, fallibile e sublime al tempo stesso. 

A volte il perdono è una forma sottile e presuntuosa di disprezzo verso il perdonato: il non credente rifugge da un simile atteggiamento. Il credente Kennedy diceva “Perdona i tuoi nemici, ma non scordare mai i loro nomi”. 

Il non credente, invece, ritiene che l’unico modo per perdonare pienamente non consiste nel rimettere il debito ma nel dimenticarlo del tutto, pur persistendo nell’umana fratellanza con il debitore. 


LAVORO. De Masi sul lavoro al Cortile di Francesco 

Il tema è più che mai importante, proprio nel mondo di oggi: “Il lavoro nel XXI secolo”. L’incontro tra il sociologo Domenico De Masi e Giulia Tasca, direttore marketing del “Cortile dei Gentili”, ha affrontato le tematiche legate al lavoro. 

De Masi si è soffermato sul processo storico-antropologico del lavoro, nei secoli. Tanti gli autori citati. Si è soffermato soprattutto sulla Enciclica "Popolorum progressio" di Papa Paolo VI, ribadendo il concetto:"Il lavoro non è lavoro, se non è libero". 


PURGATORIO. Per comprendere l’origine dei Monti di Pietà bisogna risalire all’idea di Purgatorio, che si diffuse intorno al XII secolo. E’ questo il secolo delle crociate, delle esplorazioni geografiche, del riassetto giuridico, economico e urbano, dell’inquadramento delle confraternite, dell’industria edile e tessile; è il secolo del rinnovamento monastico, delle università, della scolastica.
E, come si è detto, del Purgatorio, che in poco tempo riuscì a conquistare l’immaginario collettivo e a moltiplicare il proprio successo.
Oggi possiamo ricostruirne agevolmente la storia grazie a La nascita del Purgatorio, un libro molto documentato e di grande interesse, scritto dallo storico medievalista Jacques Le Goff.
Prima della Chiesa, nessun’altra religione aveva concepito l’esistenza di un luogo transitorio, non eterno, predisposto per accogliere le anime purganti nello spazio temporale compreso tra la morte del singolo e il giudizio universale, allo scopo di consentirgli l’accesso, sia pure dilazionato, nel regno dei cieli, dopo un’opportuna purga dei suoi peccati. Tutte le altre religioni occidentali riservavano ai morti un luogo unico, grigio e indistinto come l’Averno dei Romani; oppure due luoghi diametralmente opposti, uno eternamente felice per le anime beate e uno eternamente infelice per le anime dannate.
La Chiesa, invece, introdusse una terza possibilità: chi non è compiutamente virtuoso (e, quindi, meritevole dell’immediata ascesa in Paradiso); chi non è irrimediabilmente dannato (e, quindi, subito punibile con l’immediata discesa nell’inferno), cioè, la maggioranza dei morti secondo la speranza dei loro sopravvissuti, deve scontare in Purgatorio una serie di pene severissime ma transitorie, commisurate alle sue colpe non ancora del tutto mondate.
Così, per la prima volta nella storia delle religioni occidentali, tra l’Inferno e il Paradiso si situa anche il Purgatorio: nuovo spazio, nuova area negoziale, capace di mantenere un ponte tra le anime purganti dei morti e il soccorso che ad esse possono procurare i vivi. I quali, per questo soccorso, debbono guadagnare o acquistare indulgenze, partecipando attivamente ai riti religiosi, frequentando i sacramenti, pagando e facendo donazioni.
La paura del Purgatorio rese più generose le elemosine e più ricchi gli ordini religiosi. Furono i frati degli Ordini mendicanti, e particolarmente i Frati Minori Osservanti, a inventare e diffondere i Monti di Pietà.
Grazie ad essi, le ricchezze accumulate tramite donazioni, beneficenze, indulgenze e penitenze, anziché essere accumulate come facevano gli ordini cavallereschi, venivano prestate in piccole somme ai bisognosi – un poco come oggi il microcredito del premio Nobel Muhammad Junus – chiedendo in cambio un interesse molto minore di quello praticato dai banchieri ebrei.
Poi, via via, alcuni Monti si trasformarono in Casse di Risparmio e altre in Opere Pie, mentre il fascino delle idee capitaliste andava prendendo il sopravvento.



venerdì 24 marzo 2023

Don Peppino Diana, un pastore esemplare


Sono le parole, tra le altre, usate dal Presidente Mattarella, nel suo discorso ai giovani studenti di Casal di Principe, per delineare un tratto della personalità del sacerdote vittima nel 1994 della criminalità locale.

Mattarella le ha pronunciate il 21 Marzo scorso in occasione della celebrazione della “Giornata della Memoria e dell’Inpegno in ricordo delle vittime delle mafie”. Una giornata durante la quale il Presidente della Repubblica ha incontrato Autorità civili e religiose, ha reso omaggio alla Tomba di don Diana, ha incontrato nella palestra dell’Istituto Comprensivo Guido Carli gli studenti e i docenti delle scuole superiori, ed ha visitato la sagrestia della Chiesa di San Nicola ove il sacerdote fu ucciso. 

Leggiamo dal testo del discorso pubblicato su portale della Presidenza della Repubblica: 


Don Peppino era un uomo coraggioso, un pastore esemplare, un figlio di questa terra, un eroe dei nostri tempi, che ha pagato il prezzo più alto, quello della vita, per aver denunciato il cancro della camorra e per aver invitato le coscienze alla ribellione.

Don Diana aveva compreso, nella sua esperienza quotidiana, che la criminalità organizzata è una presenza che uccide persone, distrugge speranze, alimenta la paura, semina odio, ruba il futuro ai giovani.

Usava parole “cariche di amore” come ha detto poc’anzi Maria. Parole chiare, decise, coraggiose. Dopo l’uccisione di un innocente disse: “Non in una Repubblica democratica ci pare di vivere ma in un regime dove comandano le armi. Leviamo alto il nostro No alla dittatura armata”.

È esattamente così come diceva. Le mafie temono i liberi cittadini. Vogliono persone asservite, senza il gusto della libertà.

Le mafie sono presenti in tutte le attività più turpi e dannose per la comunità: la prostituzione, il traffico di esseri umani, di rifiuti tossici, il caporalato, il commercio di armi, quello strumento di morte che è la droga, lasciando nel territorio povertà e disperazione.

Oltre a reclamare una maggiore e più efficace presenza dello Stato, Don Diana aveva rivolto il suo forte e accorato appello al coraggio e alla resistenza, per liberarsi dalla camorra, proprio ai suoi parrocchiani, ai cittadini, alla società civile, alle coscienze delle persone oneste.

Aveva capito che la mafia è anche conseguenza dell’ignoranza, del sottosviluppo, della carenza di prospettive, e che quindi la repressione – indispensabile - non è sufficiente e che la mafia si sconfigge definitivamente sviluppando modelli fondati sulla legalità, sulla trasparenza, sulla cultura, sull’efficienza della macchina pubblica.

Per tutti questi motivi, care ragazze e cari ragazzi, la lotta alle mafie riguarda tutti, ciascuno di noi. Non si può restare indifferenti, non si può pensare né dire: non mi riguarda. O si respingono con nettezza i metodi mafiosi o si rischia, anche inconsapevolmente, di diventarne complici.

Battere la mafia è possibile. Lo diceva Giovanni Falcone: «La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine».

Casal di Principe lo ha dimostrato. L’efferato omicidio di Don Peppino Diana è stato un detonatore di coraggio e di volontà di riscatto. Ha prodotto un’ondata di sdegno, di partecipazione civile, una vera battaglia di promozione della legalità.




Il discorso sul portale del Quirinale

Un post su Don Diana

Una pagina diocesana dedicata a Don Diana


venerdì 20 gennaio 2023

Guardare al domani con uno sguardo nuovo

E’ in sintesi l’esortazione augurale del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per il nuovo anno 2023; e la leggiamo dal Portale del Quirinale nel Messaggio di fine anno.



Palazzo del Quirinale, 31/12/2022 (II mandato)

Care concittadine e cari concittadini,

un anno addietro, rivolgendomi a voi in questa occasione, definivo i sette anni precedenti come impegnativi e complessi.

Lo è stato anche l’anno trascorso, così denso di eventi politici e istituzionali di rilievo.

L’elezione del Presidente della Repubblica, con la scelta del Parlamento e dei delegati delle Regioni che, in modo per me inatteso, mi impegna per un secondo mandato.

Lo scioglimento anticipato delle Camere e le elezioni politiche, tenutesi, per la prima volta, in autunno.

Il chiaro risultato elettorale ha consentito la veloce nascita del nuovo governo, guidato, per la prima volta, da una donna.

È questa una novità di grande significato sociale e culturale, che era da tempo matura nel nostro Paese, oggi divenuta realtà.

Nell’arco di pochi anni si sono alternate al governo pressoché tutte le forze politiche presenti in Parlamento, in diverse coalizioni parlamentari.

Quanto avvenuto le ha poste, tutte, in tempi diversi, di fronte alla necessità di misurarsi con le difficoltà del governare.

Riconoscere la complessità, esercitare la responsabilità delle scelte, confrontarsi con i limiti imposti da una realtà sempre più caratterizzata da fenomeni globali: dalla pandemia alla guerra, dalla crisi energetica a quella alimentare, dai cambiamenti climatici ai fenomeni migratori.

La concretezza della realtà ha così convocato ciascuno alla responsabilità.

Sollecita tutti ad applicarsi all’urgenza di problemi che attendono risposte.

La nostra democrazia si è dimostrata dunque, ancora una volta, una democrazia matura, compiuta, anche per questa esperienza, da tutti acquisita, di rappresentare e governare un grande Paese.

È questa consapevolezza, nel rispetto della dialettica tra maggioranza e opposizione, che induce a una comune visione del nostro sistema democratico, al rispetto di regole che non possono essere disattese, del ruolo di ciascuno nella vita politica della Repubblica.

Questo corrisponde allo spirito della Costituzione.

Domani, primo gennaio, sarà il settantacinquesimo anniversario della sua entrata in vigore.

La Costituzione resta la nostra bussola, il suo rispetto il nostro primario dovere; anche il mio.  

Siamo in attesa di accogliere il nuovo anno ma anche in queste ore il pensiero non riesce a distogliersi dalla guerra che sta insanguinando il nostro Continente.

Il 2022 è stato l’anno della folle guerra scatenata dalla Federazione russa. La risposta dell’Italia, dell’Europa e dell’Occidente è stata un pieno sostegno al Paese aggredito e al popolo ucraino, il quale con coraggio sta difendendo la propria libertà e i propri diritti.

Se questo è stato l’anno della guerra, dobbiamo concentrare gli sforzi affinché il 2023 sia l’anno della fine delle ostilità, del silenzio delle armi, del fermarsi di questa disumana scia di sangue, di morti, di sofferenze.

La pace è parte fondativa dell’identità europea e, fin dall’inizio del conflitto, l’Europa cerca spiragli per raggiungerla nella giustizia e nella libertà.

Alla pace esorta costantemente Papa Francesco, cui rivolgo, con grande affetto, un saluto riconoscente, esprimendogli il sentito cordoglio dell’Italia per la morte del Papa emerito Benedetto XVI.

Si prova profonda tristezza per le tante vite umane perdute e perché, ogni giorno, vengono distrutte case, ospedali, scuole, teatri, trasformando città e paesi in un cumulo di rovine.  Vengono bruciate, per armamenti, immani quantità di risorse finanziarie che, se destinate alla fame nel mondo, alla lotta alle malattie o alla povertà, sarebbero di sollievo per l’umanità.

Di questi ulteriori gravi danni, la responsabilità ricade interamente su chi ha aggredito e non su chi si difende o su chi lo aiuta a difendersi.

Pensiamoci: se l’aggressione avesse successo, altre la seguirebbero, con altre guerre, dai confini imprevedibili.

Non ci rassegniamo a questo presente.

Il futuro non può essere questo.

La speranza di pace è fondata anche sul rifiuto di una visione che fa tornare indietro la storia, di un oscurantismo fuori dal tempo e dalla ragione. Si basa soprattutto sulla forza della libertà. Sulla volontà di affermare la civiltà dei diritti.

Qualcosa che è radicato nel cuore delle donne e degli uomini. Ancor più forte nelle nuove generazioni.

Lo testimoniano le giovani dell’Iran, con il loro coraggio. Le donne afghane che lottano per la loro libertà. Quei ragazzi russi, che sfidano la repressione per dire il loro no alla guerra.  

Gli ultimi anni sono stati duri. Ciò che abbiamo vissuto ha provocato o ha aggravato tensioni sociali, fratture, povertà.

Dal Covid - purtroppo non ancora sconfitto definitivamente – abbiamo tratto insegnamenti da non dimenticare.

Abbiamo compreso che la scienza, le istituzioni civili, la solidarietà concreta sono risorse preziose di una comunità, e tanto più sono efficaci quanto più sono capaci di integrarsi, di sostenersi a vicenda. Quanto più producono fiducia e responsabilità nelle persone.

Occorre operare affinché quel presidio insostituibile di unità del Paese rappresentato dal Servizio sanitario nazionale si rafforzi, ponendo sempre più al centro la persona e i suoi bisogni concreti, nel territorio in cui vive.

So bene quanti italiani affrontano questi mesi con grandi preoccupazioni. L’inflazione, i costi dell’energia, le difficoltà di tante famiglie e imprese, l’aumento della povertà e del bisogno.

La carenza di lavoro sottrae diritti e dignità: ancora troppo alto è il prezzo che paghiamo alla disoccupazione e alla precarietà.

Allarma soprattutto la condizione di tanti ragazzi in difficoltà. La povertà minorile, dall’inizio della crisi globale del 2008 a oggi, è quadruplicata.

Le differenze legate a fattori sociali, economici, organizzativi, sanitari tra i diversi territori del nostro Paese – tra Nord e Meridione, per le isole minori, per le zone interne - creano ingiustizie, feriscono il diritto all’uguaglianza.

Ci guida ancora la Costituzione, laddove prescrive che la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che ledono i diritti delle persone, la loro piena realizzazione. Senza distinzioni.

La Repubblica siamo tutti noi. Insieme.

Lo Stato nelle sue articolazioni, le Regioni, i Comuni, le Province. Le istituzioni, il Governo, il Parlamento. Le donne e gli uomini che lavorano nella pubblica amministrazione. I corpi intermedi, le associazioni. La vitalità del terzo settore, la generosità del volontariato.

La Repubblica – la nostra Patria – è costituita dalle donne e dagli uomini che si impegnano per le loro famiglie.

La Repubblica è nel senso civico di chi paga le imposte perché questo serve a far funzionare l’Italia e quindi al bene comune.

La Repubblica è nel sacrificio di chi, indossando una divisa, rischia per garantire la sicurezza di tutti. In Italia come in tante missioni internazionali.

La Repubblica è nella fatica di chi lavora e nell’ansia di chi cerca il lavoro. Nell’impegno di chi studia. Nello spirito di solidarietà di chi si cura del prossimo. Nell’iniziativa di chi fa impresa e crea occupazione.

Rimuovere gli ostacoli è un impegno da condividere, che richiede unità di intenti, coesione, forza morale.

È grazie a tutto questo che l’Italia ha resistito e ha ottenuto risultati che inducono alla fiducia.

La nostra capacità di reagire alla crisi generata dalla pandemia è dimostrata dall’importante crescita economica che si è avuta nel 2021 e nel 2022.  

Le nostre imprese, a ogni livello, sono state in grado, appena possibile, di ripartire con slancio: hanno avuto la forza di reagire e, spesso, di rinnovarsi.

Le esportazioni dei nostri prodotti hanno tenuto e sono anzi aumentate.

L’Italia è tornata in brevissimo tempo a essere meta di migliaia di persone da ogni parte del mondo. La bellezza dei nostri luoghi e della nostra natura ha ripreso a esercitare una formidabile capacità attrattiva.

Dunque ci sono ragioni concrete che nutrono la nostra speranza ma è necessario uno sguardo d’orizzonte, una visione del futuro.

Pensiamo alle nuove tecnologie, ai risultati straordinari della ricerca scientifica, della medicina, alle nuove frontiere dello spazio, alle esplorazioni sottomarine. Scenari impensabili fino a pochi anni fa e ora davanti a noi.

Sfide globali, sempre.

Perché è la modernità, con il suo continuo cambiamento, a essere globale.

Ed è in questo scenario, per larghi versi inedito, che misuriamo il valore e l’attualità delle nostre scelte strategiche: l’Europa, la scelta occidentale, le nostre alleanze. La nostra primaria responsabilità nell’area che definiamo Mediterraneo allargato. Il nostro rapporto privilegiato con l’Africa.

Dobbiamo stare dentro il nostro tempo, non in quello passato, con intelligenza e passione.

Per farlo dobbiamo cambiare lo sguardo con cui interpretiamo la realtà. Dobbiamo imparare a leggere il presente con gli occhi di domani.

Pensare di rigettare il cambiamento, di rinunciare alla modernità non è soltanto un errore: è anche un’illusione. Il cambiamento va guidato, l’innovazione va interpretata per migliorare la nostra condizione di vita, ma non può essere rimossa.

La sfida, piuttosto, è progettare il domani con coraggio.

Mettere al sicuro il pianeta, e quindi il nostro futuro, il futuro dell’umanità, significa affrontare anzitutto con concretezza la questione della transizione energetica.

L’energia è ciò che permette alle nostre società di vivere e progredire. Il complesso lavoro che occorre per passare dalle fonti tradizionali, inquinanti e dannose per salute e ambiente, alle energie rinnovabili, rappresenta la nuova frontiera dei nostri sistemi economici.

Non è un caso se su questi temi, e in particolare per l’affermazione di una nuova cultura ecologista, registriamo la mobilitazione e la partecipazione da parte di tanti giovani.

L’altro cambiamento che stiamo vivendo, e di cui probabilmente fatichiamo tuttora a comprendere la portata, riguarda la trasformazione digitale.

L’uso delle tecnologie digitali ha già modificato le nostre vite, le nostre abitudini e probabilmente i modi di pensare e vivere le relazioni interpersonali. Le nuove generazioni vivono già pienamente questa nuova dimensione.

La quantità e la qualità dei dati, la loro velocità possono essere elementi posti al servizio della crescita delle persone e delle comunità. Possono consentire di superare arretratezze e divari, semplificare la vita dei cittadini e modernizzare la nostra società.

Occorre compiere scelte adeguate, promuovendo una cultura digitale che garantisca le libertà dei cittadini.

Il terzo grande investimento sul futuro è quello sulla scuola, l’università, la ricerca scientifica. E’ lì che prepariamo i protagonisti del mondo di domani. Lì che formiamo le ragazze e i ragazzi che dovranno misurarsi con la complessità di quei fenomeni globali che richiederanno competenze adeguate, che oggi non sempre riusciamo a garantire.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza spinge l’Italia verso questi traguardi. Non possiamo permetterci di perdere questa occasione.

Lo dobbiamo ai nostri giovani e al loro futuro.

Parlando dei giovani vorrei – per un momento - rivolgermi direttamente a loro:

siamo tutti colpiti dalla tragedia dei tanti morti sulle strade.

Troppi ragazzi perdono la vita di notte per incidenti d’auto, a causa della velocità, della leggerezza, del consumo di alcol o di stupefacenti.

Quando guidate avete nelle vostre mani la vostra vita e quella degli altri. Non distruggetela per un momento di imprudenza.

Non cancellate il vostro futuro.

 

Care concittadine e cari concittadini,

guardiamo al domani con uno sguardo nuovo. Guardiamo al domani con gli occhi dei giovani. Guardiamo i loro volti, raccogliamo le loro speranze. Facciamole nostre.

Facciamo sì che il futuro delle giovani generazioni non sia soltanto quel che resta del presente ma sia il frutto di un esercizio di coscienza da parte nostra. Sfuggendo la pretesa di scegliere per loro, di condizionarne il percorso.

La Repubblica vive della partecipazione di tutti.

È questo il senso della libertà garantita dalla nostra democrazia.

È anzitutto questa la ragione per cui abbiamo fiducia.

Auguri !


Il Messaggio sul Portale del Quirinale