All'ora
dei Vespri del venerdì 14 marzo 2014 la cattedrale di Aversa si è
gremita di fedeli e di persone interessate all'ascolto del cardinale
Angelo Scola, arcivescovo di Milano, invitato dal vescovo Angelo
Spinillo a tenere una relazione sull'argomento della Speranza che è
stato scelto come tema della pastorale annuale per la Diocesi.
Religiosi e laici, rappresentanti del clero e dei molteplici uffici
diocesani, delle parrocchie e delle aggregazioni culturali, hanno
potuto vivere per oltre un'ora una bella esperienza di catechesi e di
rigoroso ragionamento teologico stimolanti per la fede e la
testimonianza del Vangelo; e quasi tutti hanno potuto personalmente
avere uno scambio di parole e di saluti con il cardinale ospite.
All'incontro non è mancata l'umile presenza del vescovo emerito
Mario Milano.
Il
cardinale Scola è stato accolto dal Vescovo Spinillo e dal Vicario
Generale d. Francesco Picone ed ha occupato la posizione centrale
tra i due al tavolo di lavoro allestito sul piano balaustrato dinanzi
all'altare.
Ha
introdotto il Vescovo Spinillo che prendendo spunto dalla Spe
salvi di Benedetto XVI, ha posto la questione del rapporto tra la
speranza vissuta nella quotidianità e la certezza che si fonda sulla
fede nella Presenza del Signore. Illustrando il cammino dell'anno
pastorale 2013-2014 della Diocesi incentrato sulla tematica “Il
Signore è veramente risorto”, ed improntato alla riflessione sulla
virtù teologale della speranza, il vescovo ha chiesto al cardinale
di illuminare con il suo discorso la problematica della speranza
vissuta dall'uomo contemporaneo nelle varie dimensioni della fede e e
del pensiero, in Italia in Europa e nel mondo, e di offrire spunti di
riflessione utili al “cammino triennale di formazione e di
attenzione pastorale nell’orizzonte dell’educare al vivere la
fede, la speranza e la carità”. Ed utili a stimolare “la
concretezza di quei ‘percorsi di vita buona’ che sono gli ambiti
propri del vivere quotidiano dell’umanità di questo tempo: Lavoro
e festa, Cittadinanza, Affettività, Fragilità e Tradizione”.
I
cardinale Scola esordisce con un riferimento alla bellezza della
Cattedrale aversana e alle “Briciole di Storia” della Diocesi che
egli ha potuto raccogliere; ed umilmente afferma di non sapere se
sarà in grado di rispondere nelle aspettative e negli orizzonti
proposti dal vescovo nei 50 minuti che egli prevede di assegnare al
suo intervento. E quindi magistralmente si impegna nella sua
riflessione umanistica-pastorale sulla speranza prendendo e
sviluppando spunti interessanti ed efficaci dalla letteratura, dalla
filosofia, dalla teologia, dalla Sacra Scrittura e dal Magistero
della Chiesa. Umanità e Santità, nuovo umanesimo e ricerca di Dio,
sono da lui proposti come prerogative e dimensioni del dialogo che
porta i credenti a vivere la speranza nella testimonianza e nella
relazione personale con il Signore e con i fratelli.
Il
suo discorso è un crescendo di esplicitazioni e di approfondimenti
che si articola nei punti che egli formalmente intitola: 1. Speranza
virtù bambina; 2. Gesù Cristo nostra speranza; 3. Testimoni di
speranza; 4. La speranza nell'incontro del nostro fratello uomo; 5.
La speranza genera un nuovo umanesimo; 6. Raccontare Gesù nostra
speranza.
Sul
portale della Diocesi il discorso del cardinale Angelo Scola è
riportato per intero: lo trascriviamo per comodità di lettura.
Intervento
di S. Em.za Angelo Card. Scola
Arcivescovo
di Milano
CATTEDRALE
DI AVERSA
14
MARZO 2014
1.
Speranza, “virtù bambina”
In
un articolo pubblicato quasi trent’anni fa su La Stampa e
significativamente intitolato Chi ci libererà dalla barbarie. I
tamburi del profeta, l’inquieto e pessimista intellettuale Guido
Ceronetti scriveva: «Tuttavia aspettare qualcuno che sia in assoluto
altro, uno Straniero, un Esiliato che abbia in comune con noi
soltanto la forma umana, o neppure quella: la parola soltanto, la
parola davanti a cui niente resiste, e la mano, ma guaritrice,
esercitata a guarire toccando, è una interessante vendetta,
un’ombra, se non la carne, di un rimedio, un modo per attenuare il
dolore della piaga civile, per consolare il gemito insistente del
cuore indecentemente oltraggiato. Così ogni mattino mi dico: dovrà
pur venire qualcuno, forse oggi stesso lo sapremo, scoprendo qualcosa
di cambiato in una delle solite facce che s’incontrano, e venendo
disperderà con un soffio, prima di ogni altra cosa, questa verminaia
terra di poteri senza legge che ci intortiglia [attorciglia]» .
Sono
parole che mantengono una attualità sconcertante. Non solo perché
la situazione sociale può, per certi aspetti, continuare ad essere
descritta con espressioni quali “poteri senza legge” – non mi
riferisco soltanto alla situazione del nostro Paese, ma soprattutto
allo stato in cui versano intere popolazioni del sud del pianeta, in
particolare quelle dell’Africa sub sahariana –; le parole di
Ceronetti sono attuali perché descrivono, forse con eccessiva
durezza, la condizione che rende l’attesa, elementare forma di
speranza, umanamente reale e non una pura illusione utopica o
addirittura un inganno menzognero.
Perché?
Perché l’affermazione di Ceronetti ci fa comprendere che la
speranza non può semplicemente derivare dal cambiamento delle
circostanze: è troppo poco. Essa, invece, s’identifica con la
venuta di qualcuno. Non siamo noi a poterci ridare speranza da soli,
non siamo noi a salvarci con le nostre forze. Deve essere veramente
un altro a farlo per noi. E parlare di un altro significa individuare
il terreno su cui può fiorire la speranza: essa è sempre frutto
dell’incontro tra un io e un tu. Non c’è speranza per chi non
lascia spazio all’altro. Siamo ben consapevoli che questo lasciar
spazio all’altro non sia così comune nel nostro mondo post-moderno
nel quale sempre più si espande un individualismo narcisista. Il
narcisista, infatti, è colui che prolunga per tutta la vita
l’inevitabile esperienza della primissima infanzia: guardarsi allo
specchio e vedere sé come l’altro. Maturità domanda, invece, di
lasciar essere l’altro come altro. Il narcisismo tronca alla radice
ogni speranza, perché non “vede” l’altro e finisce per
generare solitudine cattiva. Allora la vita pesa, come ha genialmente
intuito Dante condannando i superbi a camminare schiacciati da enormi
massi sulle spalle.
Ma
l’altro che aspettiamo – ecco il secondo spunto offerto dal
nostro autore – deve avere forma umana… Devo poterlo riconoscere.
Non c’è possibilità di sperare se non si incontra, nella trama di
circostanze e di rapporti che investono la nostra esistenza, quella
presenza che «disperderà con un soffio [ciò] che intortiglia»
perché rende capaci di affrontare la realtà simultaneamente con
meraviglia e serietà. Come fanno i bambini.
Péguy
afferma: «La speranza è virtù bambina, che prende per mano la fede
e la carità» .
La
speranza per l’Europa, e più in generale per il mondo
contemporaneo – al di là di tutte le analisi e le proposte che
possono essere sbandierate dai mass media, si gioca a questo livello.
L’Europa avrà speranza se sarà abitata da uomini e donne di
speranza.
Sulla
base di questa decisiva premessa si può capire come parlare di
speranza conduca a riflettere sulla nuova evangelizzazione tanto
necessaria per le Chiese di antica origine. Penso alla mia Milano ma
anche alla vostra gloriosa Chiesa le cui radici risalgono, mi pare,
intorno al 1022. È qui che possiamo riconoscere tutta la portata
dell’invito ad una Chiesa in uscita, come ama ricordarci il Santo
Padre .
2.
«Gesù Cristo, nostra speranza» (1Tm 1,1)
La
Prima Lettera a Timoteo definisce «Gesù Cristo nostra speranza».
Quale esperienza facciamo di questa realtà? Partiamo un’altra
volta dall’esperienza umana comune. Ci aiuta Kafka che nel romanzo
Il castello scrive: «Colui che non abbiamo mai visto, che però
aspettiamo sempre con vera bramosia [Colui], che ragionevolmente però
è stato considerato irraggiungibile per sempre – eccolo qui
seduto» .
Qui
seduto: proprio colui che si riteneva irraggiungibile, tanto è
altro, lo incontriamo seduto accanto a noi. Questo è il
cristianesimo: la speranza fattasi carne per accompagnare da vicino
la vita degli uomini. Pensiamo all’esperienza di sua madre, degli
apostoli, dei due di Emmaus.
Recentemente
Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, ha
voluto ribadire con forza una delle linee maestre dell’insegnamento
di Benedetto XVI. Scrive il Papa: «Non mi stancherò di ripetere
quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del
Vangelo: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una
decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un
avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e,
con ciò, la direzione decisiva”» . Si tratta, come sappiamo,
della citazione dell’incipit dell’enciclica Deus caritas est.
L’affermazione di Benedetto XVI ci dice che all’origine della
speranza c’è l’incontro con Dio che sempre ci precede: Gesù
Cristo è la nostra speranza.
È
essenziale non perdere mai di vista né dare per scontata
quest’origine gratuita della speranza. Infatti, nelle nostre
società in transizione all’avvio del terzo millennio, sotto le più
diverse espressioni – incluse quelle contraddittorie e violente –
l’uomo contemporaneo è messo alla prova da una domanda radicale:
«La grande sofferenza dell’uomo è proprio questa: dietro il
silenzio dell’universo, dietro le nuvole c’è un Dio o non c’è?
E, se c’è questo Dio, ci conosce, ha a che fare con noi? Questo
Dio è buono, e la realtà del bene ha potere nel mondo o no? (…) È
una realtà o no? Perché non si fa sentire?» , così Benedetto XVI.
Il dubbio che la solitudine possa essere la parola definitiva
sull’umano destino porta gli uomini a cedere alla tentazione di una
“desertificazione spirituale”, che conduce alla «diffusione del
vuoto» .
Questo
non è pessimismo ma realismo, tanto più che per la tradizione
biblica il “deserto” è l’ambito privilegiato dell’“incontro”
e del “cammino” del popolo col Dio vivo che manifesta il suo
potere salvifico compiendo meraviglie.
Come
far fronte ad una tale situazione? All’inizio dell’Assemblea del
Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione Benedetto XVI ha
risposto alla domanda, indirizzando il nostro sguardo e il nostro
pensiero a quello che possiamo chiamare l’antefatto che dà vita
alla Chiesa: «Dio ha parlato, ha veramente rotto il grande silenzio,
si è mostrato, ma come possiamo far arrivare questa realtà all’uomo
di oggi, affinché diventi salvezza? (…) Solo Dio stesso può
creare la sua Chiesa, Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le
nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può
testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste è la
condizione della nascita della Chiesa (…) Dio è l’inizio sempre»
.
Un’indicazione
fondamentale affinché la nuova evangelizzazione riesca a ridare
speranza all’Europa e più in generale alla contemporanea famiglia
umana potrebbe essere formulata in questo modo: la precedenza è
sempre di Dio, Egli parla ed opera. La Chiesa, ciascuno di noi, può
solo co-operare con Lui.
3.
Testimoni di speranza
Mi
pare che proprio il verbo “co-operare” descriva adeguatamente il
compito dei cristiani nella nuova evangelizzazione, la loro
responsabilità di fronte alla speranza.
Se
l’origine permanente e insuperabile è sempre la precedenza di Dio,
«dall’altra parte questo Dio, che è sempre l’inizio, vuole
anche il coinvolgimento nostro, vuole coinvolgere la nostra attività,
così che le attività sono teandriche, per così dire, fatte da Dio,
ma con il coinvolgimento nostro e implicando il nostro essere, tutta
la nostra attività» . L’espressione usata dal Santo Padre e la
spiegazione che egli ne ha dato sono inequivocabili: le attività
della Chiesa sono “teandriche”, cioè divino-umane, non perché
“fatte da Dio e da noi”, ma perché «fatte da Dio con il
coinvolgimento nostro». In questo modo Benedetto XVI ci aiuta a
cogliere che il carattere divino-umano dell’evangelizzazione non
implica una “parità” di compiti o di protagonismo tra Dio e i
cristiani: la nostra attività avrà sempre la forma mariana della
risposta, della collaborazione attraverso l’assenso, cioè
dell’obbedienza della fede. Solo Dio è il protagonista, la Chiesa
è co-agonista. L’ambito in cui si può percepire con maggior
chiarezza questo essere co-agonista proprio della Chiesa è la
celebrazione liturgica. In essa, infatti, il popolo cristiano è di
fronte al Signore sempre in posizione mariana, la posizione di Maria
che coopera con il suo fiat all’iniziativa di Dio che la precede.
Questa “qualità responsoriale”, che emerge con chiarezza nella
liturgia, è caratteristica di ogni espressione della vita della
Chiesa.
Il
nome proprio di questa “qualità responsoriale” propria della
vita cristiana è testimonianza (autoesposizione). Mettere a tema la
testimonianza come forma specifica dell’esistenza del cristiano è
la strada per parlare della nuova evangelizzazione quale fonte di
speranza per l’Europa.
Tuttavia
il termine, a prima vista chiaro, viene troppo spesso sottoposto a
riduzioni. Per esempio una testimonianza che si limiti alla sola, pur
importante, coerenza del singolo con alcuni principi di
comportamento, non risulta convincente. Il necessario “buon
esempio” non basta per renderci testimoni autentici. Si è
effettivamente testimoni quando «attraverso le nostre azioni, parole
e modo di essere, un Altro appare e si comunica. Si può dire che la
testimonianza è il mezzo con cui la verità dell’amore di Dio
raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere
liberamente questa novità radicale. Nella testimonianza Dio si
espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo. Gesù
stesso è il testimone fedele e verace (cf. Ap 1,5; 3,14); è venuto
per rendere testimonianza alla verità (cf. Gv 18,37)» .
Proviamo,
quindi, ora a descrivere sinteticamente tre caratteristiche della
testimonianza adeguatamente intesa.
a)
Mi preme molto sottolineare che essa non è qualcosa di aggiunto alla
vita di ciascuno di noi, un’attività che si sovrappone al
“mestiere di vivere”, rendendolo ulteriormente faticoso. La
testimonianza coincide invece con una vita cristiana matura, che si
esprime e si gioca attraverso quei cardini dell’esistenza che sono
gli affetti, il lavoro e il riposo . Il testimone è consapevole
della responsabilità missionaria indicataci dall’Apostolo: «A
loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero
in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria» (Col
1,27).
b)
La testimonianza ci fa interlocutori di tutti. Non c’è niente e
nessuno che possa o debba essere estraneo ai seguaci di Cristo. Tutto
e tutti possiamo incontrare, a tutto e a tutti siamo inviati. E
questo perché ciascuno di noi, in quanto segnato dalle situazioni
della vita comune, è nel mondo. Siamo, ci ha ricordato Papa
Francesco, «chiamati a promuovere la cultura dell’incontro» . Non
dobbiamo pertanto costruirci dei recinti separati in cui essere
cristiani. È Cristo stesso a porre la sua Chiesa ed i figli del
Regno nel mondo reale delle circostanze comuni a tutti gli uomini e a
tutte le donne.
c)
Abitando il mondo i discepoli di Gesù sono pieni di attenzione e di
stupore, perché il loro sguardo non si ferma alla superficie talora
sconcertante delle cose, non si lascia impressionare dalla cronaca
spesso enigmatica e tragica, dalla zizzania, ma riconosce le tracce
dell’opera compiuta da Dio in Gesù Cristo. Il Seminatore infatti
non si stanca di spargere seme buono. Dovunque arrivi, il discepolo
sa di essere preceduto e atteso da Gesù. L’attenzione, di
conseguenza, non va posta sul nostro “fare”, ma su ciò che il
Signore suscita. Al cuore della crisi di speranza del nostro tempo
c’è spesso l’aver smarrito, o almeno sbiadito, la coscienza
della gratuità dell’incontro con Cristo, che sempre ci precede e
ci aspetta.
4.
Con speranza all’incontro del nostro fratello uomo
Le
domande dell’uomo contemporaneo sul senso della vita, lette a
partire dalla situazione delle Chiese in Europa, ci conducono ad un
interrogativo che ha il sapore di una scommessa: chi vuole essere
l’uomo del terzo millennio? Come può vivere all’altezza dei
propri desideri, ben consapevole delle inedite possibilità di cui
dispone? Come può evitare di “perdere se stesso” nel tentativo
di guadagnare il “mondo intero”?
Da
qui sorge una questione decisiva: da che cosa è caratterizzato il
contesto sociale in cui siamo chiamati a trasmettere la speranza in
questo inizio del terzo millennio? Anche in forza del processo di
secolarizzazione, dobbiamo oggi fare i conti con una “società
plurale” in cui convivono soggetti portatori di mondovisioni spesso
assai differenti tra loro e potenzialmente in conflitto: si pensi al
fenomeno dell’indifferenza sociale per il quale nello stesso tempo
tutto è diverso e tutto è uguale, a quello della società della
rete (in riferimento allo strabiliante sviluppo dei mezzi di
comunicazione), al processo di meticciato di civiltà e di culture,
nonché all’imponenza della capacità manipolatoria del reale da
parte delle tecnoscienze. In tale contesto la domanda di speranza,
legata ultimamente al rapporto costitutivo dell’uomo con la realtà
e pertanto ultimamente inestirpabile, diventa domanda di senso
(significato e direzione), di libertà e di felicità, che chiede di
essere intercettata ed interpretata.
Vediamo
tre condizioni di questa decisiva ed universale domanda di senso come
espressione di speranza:
a)
con tale domanda si confronta ogni giorno il cristiano. E non tanto
perché l’interrogativo interessa i suoi fratelli uomini, quanto
piuttosto perché si tratta della domanda di senso che la vita pone
innanzitutto a lui. Di fronte ad essa l’incontro con la persona di
Gesù Cristo documenta come Dio, entrando nella storia, voglia
fecondare con la sua presenza rinnovatrice tutta la realtà. Anche
oggi questa novità di vita può essere riconosciuta sui volti degli
uomini e delle donne trasformati dalla fede: i “cristiani” sono
coloro che, per grazia, hanno ricevuto in dono l’esistenza stessa
di Gesù e Lo seguono nel quotidiano. Si profila quella che san Paolo
chiama «una creatura nuova» (2Cor 5,17). La consapevolezza di tale
grazia conduce tutti i fedeli, che l’hanno incontrata nelle diverse
forme di realizzazione della Chiesa, a proporre il rapporto con Gesù,
verità vivente e personale, come risorsa decisiva per il presente e
per il futuro. Il testimone inevitabilmente racconta Gesù e ciò che
Gesù opera in lui.
b)
Alla domanda di senso come espressione di speranza non si risponde
con un progetto, tanto meno con un calcolo. Pieni di gratitudine i
cristiani intendono “restituire” il dono che immeritatamente
hanno ricevuto e che, pertanto, chiede di essere comunicato con la
stessa gratuità. Come? Attraverso lo snodarsi della vita della
comunità ecclesiale, che persevera nel pensiero di Cristo, nella
comunione sincera, nella celebrazione eucaristica, in una piena
apertura a tutta la realtà. Vivendo in questo modo i cristiani
possono, con franchezza e gioia, senza alcun artificio o forzatura,
proporre l’incontro con Gesù Risorto in ogni momento e dire a
chiunque: «Vieni e vedi» (Gv 1,46).
c)
Nella comunione ecclesiale così intesa, ogni diversità viene
pienamente valorizzata perché fa brillare quell’unità per cui
Gesù ha pregato affinché «il mondo creda» (Gv 17,21). Infatti,
quando la comunione non è un optional, ma diventa concreto metodo di
vita, le diversità arricchiscono ed edificano, suscitando il fascino
della proposta cristiana in ogni ambito dell’esistenza quotidiana.
Cosa
implica questo uscire da se stessi per portare a tutti Gesù come
speranza per ogni uomo e ogni donna? Anzitutto la necessità di
rischiare la propria libertà, di esporre se stessi. E proprio in ciò
consiste la testimonianza.
Il
testimone autentico però rinvia a Cristo, sommamente amato, non a
sé. Per questo non mortifica la libertà dell’altro, non è
schiavo dei risultati, non isola e non divide. Il testimone fa
crescere la libertà da se stessi, dal proprio progetto,
dall’immagine di sé che si sogna. Il testimone impara a conoscere
in modo appropriato la realtà, ne scopre, sulla propria pelle, la
verità e la comunica ai fratelli. Cristo crea amicizia, genera
comunione.
Guardare
a Maria Vergine, a san Giuseppe e a tutti i santi ci fa capire,
meglio di ogni definizione, quale sorgente di senso e perciò di
speranza sia la testimonianza integralmente intesa. «Contemplerò
ogni giorno il volto dei Santi per trovare conforto nei loro
discorsi». Torna l’importanza del racconto (Didachè).
Il
“cattolicesimo popolare” che caratterizza la nostra nazione è
chiamato pertanto a radicarsi più profondamente nella vita degli
uomini attraverso l’annuncio esplicito della bellezza, della bontà
e della verità di Gesù Cristo all’opera nel mondo: «Nella sua
dottrina, nella sua vita e nel suo culto la Chiesa perpetua e
trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò
che essa crede» .
5.
La speranza genera un nuovo umanesimo
Anche
all’inizio di questo terzo millennio Gesù Cristo è feconda radice
di un nuovo umanesimo di cui tanto sentiamo il bisogno. L’incontro
gratuito con Cristo si rivela così in tutta la sua corrispondenza
all’umano desiderio di pienezza. A tal punto che la necessaria
verifica dell’autenticità della fede consiste proprio nella
scoperta che essa “conviene” al cuore dell’uomo.
Nel
contesto della società plurale che domanda nuovo umanesimo i
cristiani non cercano la vittoria della propria parte. Al di là
degli errori commessi lungo la storia essi accettano ciò che Dio
concede alla famiglia umana. Possono essere, di volta in volta,
maggioranza costruttiva o minoranza perseguitata, ma quello a cui
sono chiamati è solo l’essere presi a servizio del disegno buono
con cui Dio accompagna la libertà degli uomini.
In
questi convulsi tempi di cambiamento le dimensioni della comune ed
elementare esperienza umana – affetti, lavoro, riposo, a cui si
aggiungono, come ci ha insegnato il Convegno di Verona (2006), gli
aspetti della fragilità, della tradizione e della cittadinanza di
cui non abbiamo qui il tempo di parlare – provocano tutti i
cristiani ad una verifica non più rinviabile, perché a tutti gli
uomini si documenti Cristo come nostra speranza.
a)
Il Vangelo visita gli affetti e li porta a compimento proponendo il
comandamento dell’amore, che da affettivo diventa effettivo: «La
fede fa comprendere l’architettura dei rapporti umani perché ne
coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio, nel suo
amore» . Il “per sempre” e la fecondità dell’amore – nel
matrimonio, inteso come unione indissolubile e aperta alla vita di un
uomo e una donna, e nella verginità consacrata – è quindi il
compimento del bisogno e del desiderio di ciascuno di essere amato e
di amare.
b)
I cristiani hanno la responsabilità di portare la speranza anche nel
campo del lavoro, facendosi eco dell’apprezzamento di Dio per
l’intraprendenza e la laboriosità umana, praticando la giustizia e
la solidarietà come virtù irrinunciabili ed esercitando la propria
professione come una vocazione. Hanno il compito di vivere nel
quotidiano ambiente di lavoro come discepoli che non nascondono la
loro fede, ma la condividono con gli altri fratelli e ne offrono
testimonianza a tutti. Cosa ci insegna la figura di don Peppe Diana,
che state commemorando a 20 anni dalla sua uccisione, se non che i
cristiani sono chiamati a impegnarsi con maggior vigore ed energia in
quell’eminente forma di carità che è la politica, intesa in senso
ampio e pieno?
c)
I cristiani hanno infine la responsabilità di essere uomini di
speranza anche nell’ambito del riposo, tante volte confuso con il
semplice svago. Conoscono, infatti, che la condizione più
desiderabile per il riposo è la comunione, quella grazia di sapersi
a casa nella relazione buona che lo Spirito di Dio sa costruire
facendo dei molti una cosa sola. Perciò la dimensione cristiana del
riposo è la festa e il cuore della festa è la celebrazione
eucaristica. Viene così offerta la possibilità non solo di staccare
dal lavoro e di interrompere la fatica, ma di una rigenerazione che
rende la persona pronta per ogni opera buona.
Insieme
alla novità cristiana, la domenica eredita tutto il valore del
sabato biblico e ritma il tempo con l’irrinunciabile memoria delle
opere di Dio e della sua presenza: è quindi il giorno della lode,
della intercessione, della speranza, della condivisione e della
letizia.
6.
Raccontare Gesù nostra speranza
Se
Gesù è venuto per portare agli uomini la speranza, tocca ai
cristiani che per grazia Lo hanno incontrato «raccontare Gesù»: è
il titolo di un prezioso libretto del giovane cardinale di Manila,
Luis Antonio Tagle. Dar testimonianza a Cristo e di Cristo, Verità
vivente e personale, di fronte alla sempre risorgente pretesa di
«incanalare Cristo, quest’acqua selvaggia nelle turbine
dell’umanità a vantaggio di quest’ultima» . La «ferita inferta
alla storia del mondo con l’apparire di Cristo continua a
suppurare» . Cristo, invece, continua a tener desto per il nostro
bene l’inquietum cor di cui parla Sant’Agostino.
Della
compagnia di Dio nessuno dovrà avere timore. Soprattutto se i
cristiani, resistendo alla tentazione dell’egemonia ed attingendo
al metodo testimoniale di Gesù, sapranno fare della loro differenza
specifica la via di una proposta umile e tenace. Incontreranno in tal
modo l’insopprimibile anelito di speranza degli uomini, che è
sempre desiderio di Dio anche se talora manifestato in modo confuso e
contraddittorio. L’anelito di speranza, infatti, è come la fenice.
Rinasce sempre dalle proprie ceneri. È lo stesso Dio a farlo
rinascere perché Egli «è più esigente di noi per la nostra
felicità… [noi invece] saremo sempre avari nella nostra speranza.
Le eresie sono frutto dell’impotenza a sperare il più» .
Nella
testimonianza e nel racconto il cristiano condivide di persona almeno
un frammento del desiderio di pienezza che non si spegne mai del
tutto nell’uomo, ridesta nel suo cuore la speranza e, quindi, la
nostalgia di Dio, destino dell’uomo, sorgente e culmine della sua
felicità. Questa riuscita umana ha un nome semplice e luminoso. Si
chiama santità.
Infatti
il santo che noi tutti possiamo essere, altro non è che un uomo
riuscito.