lunedì 27 aprile 2020

Ad aram: cammino di solitudine in tempo di epidemia, memoria e preghiera


Due immagini romane racchiudono i giorni primaverili dal 27 marzo al 25 aprile di quest’anno vissuti nel mondo e in Italia. La prima è l’immagine vespertina di papa Francesco, che cammina solitario al centro di Piazza San Pietro verso il sagrato della Basilica per recarsi a pregare il Signore che liberi il mondo dalla pandemia e stia accanto all’umanità sofferente. La seconda è quella mattutina del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che si introduce solitario all’Altare della Patria, per porgere a nome di tutti gli Italiani l’omaggio alla tomba del Milite Ignoto, nel giorno celebrativo della Liberazione che viene vissuto nel distanziamento sanitario dei cittadini per arginare l’epidemia imperversante. Il gesto della solitudine ha avuto un valore altamente simbolico e comunitario, rappresentativo sia dell’universalità dei credenti per papa Francesco e sia di tutti gli italiani per il presidente Mattarella.

Nel giro di qualche mese, dalla metà di dicembre 2019, il contagio di coronavirus (COVID-19) che sembrava avere il focolaio circoscritto alla Cina ha assunto i caratteri di una letale pandemia mondiale che ha coinvolto in modo drammatico l’Italia a partire dalle sue regioni settentrionali. Il sistema nazionale della Sanità e della Protezione Civile è stato sottoposto ad un severo impegno per far fronte ad una influenza imprevista che ha procurato decine di migliaia di contagi e alte percentuali di ricoveri e di morti. Si sono dovute adottare misure di controllo e di contenimento del contagio che hanno fatto leva sul “rimanere a casa“ della popolazione (Decreto #IORESTOACASA), sul “distanziamento sociale” con divieto di assembramenti, e sull’utilizzo di dispositivi di sicurezza sanitaria come tamponi, mascherine e sanificazioni.


La reazione all’epidemia messa in atto dall’Italia ha avuto effetti dimostrativi anche per i comportamenti e le soluzioni adottate nelle altre nazioni europee e mondiali, che nel prosieguo del tempo si sono trovate coinvolte nel contagio divenuto pandemico. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha dato pieno sostegno alle misure adottate dall’Italia; la comunità scientifica internazionale si è prodotta in uno sforzo continuo di ricerca operativa e di conoscenza statistica e previsionale del fenomeno virale, al fine di preparare vaccini e fornire le istituzioni governative di elementi utili alla gestione delle relazioni produttive e degli interventi sanitari.


Notevole è apparsa in questi frangenti di restrizioni fisiche la variazione della dinamica comportamentale e motivazionale della popolazione, sia a livello personale e sia a livello comunitario. Si è fatto sentire acutamente lo stimolo di una consapevolezza più attenta dei limiti e dei significati dell’esistenza umana, l’esigenza di una comunicazione basata sulla reciprocità e sulla speranza; di un pensiero e di una religiosità che ripropongano e testimonino il senso sacro della Vita e del Creato.
   Riporto stralci testuali della preghiera del Papa e del messaggio del Presidente per il 25 aprile.


MEDITAZIONE DEL SANTO PADRE
momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia
presieduto da papa Francesco
Sagrato della Basilica di San Pietro
Venerdì, 27 Marzo 2020


«Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.
È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40).
Cerchiamo di comprendere. In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati.
La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità.
Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai.
Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza.
Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l’intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pt 5,7).


MESSAGGIO DEL PRESIDENTE DELL REPUBBLICA
in occasione del 25 aprile

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione del 75° anniversario della Liberazione, si è recato all'Altare della Patria dove ha deposto una corona d'alloro sulla Tomba del Milite Ignoto. La deposizione della corona è avvenuta al di fuori di ogni cerimonia e senza la presenza di autorità.
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del 25 aprile ha inviato il seguente messaggio:

«Nella primavera del 1945 l’Europa vide la sconfitta del nazifascismo e dei suoi seguaci.
L’idea di potenza, di superiorità di razza, di sopraffazione di un popolo contro l’altro, all’origine della seconda guerra mondiale, lasciò il posto a quella di cooperazione nella libertà e nella pace e, in coerenza con quella scelta, pochi anni dopo è nata la Comunità Europea.
Oggi celebriamo il settantacinquesimo anniversario della Liberazione, data fondatrice della nostra esperienza democratica di cui la Repubblica è presidio con la sua Costituzione.
La pandemia del virus che ha colpito i popoli del mondo ci costringe a celebrare questa giornata nelle nostre case.
Ai familiari di ciascuna delle vittime vanno i sentimenti di partecipazione al lutto da parte della nostra comunità nazionale, così come va espressa riconoscenza a tutti coloro che si trovano in prima linea per combattere il virus e a quanti permettono il funzionamento di filiere produttive e di servizi essenziali.
Manifestano uno spirito che onora la Repubblica e rafforza la solidarietà della nostra convivenza, nel segno della continuità dei valori che hanno reso straordinario il nostro Paese.
In questo giorno richiamiamo con determinazione questi valori. Fare memoria della Resistenza, della lotta di Liberazione, di quelle pagine decisive della nostra storia, dei coraggiosi che vi ebbero parte, resistendo all’oppressione, rischiando per la libertà di tutti, significa ribadire i valori di libertà, giustizia e coesione sociale, che ne furono alla base, sentendoci uniti intorno al Tricolore.
Nasceva allora una nuova Italia e il nostro popolo, a partire da una condizione di grande sofferenza, unito intorno a valori morali e civili di portata universale, ha saputo costruire il proprio futuro.
Con tenacia, con spirito di sacrificio e senso di appartenenza alla comunità nazionale, l’Italia ha superato ostacoli che sembravano insormontabili.
Le energie positive che seppero sprigionarsi in quel momento portarono alla rinascita. Il popolo italiano riprese in mano il proprio destino. La ricostruzione cambiò il volto del nostro Paese e lo rese moderno, più giusto, conquistando rispetto e considerazione nel contesto internazionale, dotandosi di antidoti contro il rigenerarsi di quei germi di odio e follia che avevano nutrito la scellerata avventura nazifascista.
Nella nostra democrazia la dialettica e il contrasto delle opinioni non hanno mai, nei decenni, incrinato l’esigenza di unità del popolo italiano, divenuta essa stessa prerogativa della nostra identità. E dunque avvertiamo la consapevolezza di un comune destino come una riserva etica, di straordinario valore civile e istituzionale. L’abbiamo vista manifestarsi, nel sentirsi responsabili verso la propria comunità, ogni volta che eventi dolorosi hanno messo alla prova la capacità e la volontà di ripresa dei nostri territori.
Cari concittadini, la nostra peculiarità nel saper superare le avversità deve accompagnarci anche oggi, nella dura prova di una malattia che ha spezzato tante vite. Per dedicarci al recupero di una piena sicurezza per la salute e a una azione di rilancio e di rinnovata capacità di progettazione economica e sociale. A questa impresa siamo chiamati tutti, istituzioni e cittadini, forze politiche, forze sociali ed economiche, professionisti, intellettuali, operatori di ogni settore.
Insieme possiamo farcela e lo stiamo dimostrando.
Viva l’Italia! Viva la Liberazione! Viva la Repubblica!»  




Fonti: ministeriali, ufficiali e di pubblico dominio




martedì 21 aprile 2020

La lectio sociologica del professor Pellicani

Fonte: Wikipedia
La recente dipartita del prof. Luciano Pellicani (1939 - 2020), morto a Roma nel giorno di Sabato Santo a 81 anni durante la epidemia del coronavirus, mi ha fatto ritornare il ricordo degli anni di studio fatti dal 1973 al 1977 alla Facoltà di Sociologia della Università di Napoli. E il ricordo del dialogo serio e impegnativo che con lui si instaurò per lo studio e la conoscenza sociologica sviluppata nell’ottica storico-filosofica e politica. Il suo era appunto il Corso di Sociologia Politica.
All’indomani  della sua morte molteplici e autorevoli commenti (di accademici, giornalisti e politici) si sono avuti per commemorare il professore emerito della LUISS, che aveva percorso un lungo cammino come autore, docente, giornalista e ideologo del partito socialista quando questo era al governo del centrosinistra in Italia. 
Il mio ricordo del professore è giovanile, e riguarda la comunicazione elegante e rigorosa con cui riusciva ad appassionare gli studenti agli argomenti della sua disciplina d’insegnamento alla quale dava una particolare caratterizzazione di ricerca sapienziale.
Luciano Pellicani non ancora quarantenne faceva parte del corpo docente della facoltà napoletana che allora annoverava tra i professori dei corsi fondamentali Gino Germani, Aldo Fabris, Domenico De Masi, Luigi Lombardi Satriani, Aldo Masullo, Raffaello Franchini, Giuseppe Galasso. I quali insieme producevano un orientamento eclettico degli studi sociologici a Napoli. Un orientamento che si esprimeva nell’intreccio istituzionale storico-filosofico e scientifico-metodologico, e si confrontava con le dimensioni reali della cultura, dell’economia e del potere. 
La Sociologia Politica insegnata da Pellicani rispecchiava quell'orientamento da una prospettiva critica fortemente motivata ed offriva interessanti chiavi di lettura e di approfondimento della materia studiata, soprattutto in relazione alla comprensione delle ideologie politiche in Italia e nel mondo contemporaneo. 
Ricordo che al colloquio d’esame, che mi sembrava interminabile, egli verificava sia la preparazione generale fatta sui testi istituzionali consigliati e sia la capacità di ragionamento su argomenti e idee che presupponevano punti vista e giudizi personali. Si parlò di Autori, di Teorie e di Storia della Sociologia, di istituzioni e rivoluzioni; della realtà storica italiana, di liberalismo, di socialismo, di comunismo, di fascismo, di democrazia; di cattolici e laici. Non era facile avere un buon voto con il prof. Pellicani, ma egli intese valutare l’esame con un 30, senza lode. I miei interessi di studio si orientarono poi verso la tesi finale in Sociologia del Lavoro, che si avvalse anche dei notevoli contributi conoscitivi recuperati dalle piste di ricerca della disciplina di Pellicani.

Università di Napoli

Nella settimana dopo Pasqua di quest’anno, trascorsa in casa e nel distanziamento sociale imposto dall’epidemia del coronavirus, ho avuto occasione di rivedere il significato del rapporto formativo vissuto con la buonanima del prof. Pellicani. Fin da giovane sono stato esistenzialmente motivato testimone dalla fede cristiana, e per questo nel 2006 sono stato ordinato diacono di Santa Madre Chiesa dal Vescovo della mia diocesi. Nella sede dell’esame con Pellicani ebbi l’impressione che questa testimonianza era stata percepita dal professore che colse, da laico convinto, l’opportunità di un dialogo epistemologico liberato da riferimenti ideologici, ovvero religiosi, e basato sulla stima dell’interlocutore.
Corrispettivamente mi perviene da alcuni testi di Pellicani una impressione ineffabile che riguarda una certa lettura del sociale, che appare talvolta una vera lectio (sulla Storia della Salvezza) con spunti meditativi di carattere biblico e religioso. Questi testi hanno evidentemente valore descrittivo e di spiegazione di dinamiche umane e relazionali complesse, che attengono la motivazione ideologica del comportamento di popoli movimenti e leaders.
Il pensiero di fondo della sociologia di Pellicani, espresso in maniera vasta ed articolata nelle molteplici opere scritte sia per motivi trattatistici e sia a fini divulgativi, è di una semplicità sorprendente. Esso parte dall’essere dell’uomo, inteso come persona e comunità, che diviene nel tempo cultura e storia, percorrendo le vie della tradizione e del progresso, realizzando istituzioni e cambiamenti, conflitto e modernizzazione, mantenendo una certa tensione escatologica. 
Ad onorare il dialogo — che Pellicani alla maniera di Weber ritiene capace di mantenere viva la nostra cultura quando si esprime “sul conflitto dei valori piuttosto che sulla loro armonia” — recupero alcuni brani pubblicati in rete ed utilizzabili nel contesto di un dibattito tra il pensiero laico e la fede cristiana. 

La vocazione del Sociologo
Tenuta nell’inverno 1917-18, la conferenza Wissenschaft als Beruf può essere considerata il testamento spirituale di Max Weber. In essa, egli ha tracciato in maniera magistrale la sua concezione del ruolo dello scienziato sociale: un ruolo che, come indica il duplice valore semantico della parola Beruf, è sia una “professione” che una “vocazione”. Una professione poiché, nel modo moderno, lo scienziato sociale non può non essere uno specialista: lo impone la legge della divisione del lavoro, che domina sovrana lo sviluppo della società industriale, i cui imperativi funzionali hanno reso del tutto obsoleta la figura del dilettante. Nello stesso tempo, però, lo scienziato sociale deve essere vissuto da una sorta di “ebbrezza mistica” poiché nulla ha veramente valore per l’uomo se non suscita una dedizione appassionata. Solo se serve disinteressatamente il proprio oggetto, facendosi completamente assorbire da esso, lo studioso di professione può rimanere fedele alla sua vocazione, che è quella di servire il “Dio della scienza”. Il quale è un Dio esclusivo, geloso, persino tirannico. Egli non può tollerare che i suoi fedeli compiano sacrifici davanti all’altare di altre divinità. 
(da: L. Pellicani, Il dramma della morte di Dio – Sull’idea di sociologia di Max Weber, 2016).

Cultura e Storia 
La società prima di essere una realtà politica o economica, è una realtà culturale, il sociale […] è quel complesso di credenze, di miti, di valori, di norme, di aspettative che operano nell’individuo, ma che non sono, propriamente parlando, dell’individuo, bensì della collettività anonima: sono di tutti e di nessuno e costituiscono il quadro istituzionale entro cui si svolgono le relazioni sociali.
Dalla scoperta della dimensione culturale della società […] deriva un arricchimento della definizione aristotelica di uomo: l’uomo, per la tradizione sociologica, è un essere sociale non solo e non tanto perché vive a nativitate in una società, ma anche e soprattutto perché la società vive in lui sotto forma di cultura interiorizzata.
La cultura — vale dire tutto ciò che, pur essendo stato creato dagli uomini, attraverso il processo di istituzionalizzazione si è reso indipendente dalla loro volontà e ha acquistato il carattere di impersonale norma agendi — imbeve l’individuo come l’acqua la spugna. Essa, avvolgendo l’uomo in una rete di simboli, di rappresentazioni, di ideali, di valori e di disvalori, socializza persino la parte più intima della sua personalità.
[…] Si può quindi affermare che l’uomo è un animale culturale, plasmato, educato, orientato, disciplinato dalla società in cui è stato socializzato. E poiché la cultura ha una storia — anzi: è storia —, si può affermare parimenti che l’uomo è un animale storico che vive in e di una particolare tradizione. Donde il principio metodologico secondo cui per spiegare e comprendere l’agire di un uomo non è sufficiente utilizzare variabili biologiche e psicologiche; occorre anche fare uso di variabili sociologiche, quali le credenze, i valori collettivi, le norme istituzionalizzate, le aspettative di ruolo, tutti elementi che la società ha iniettato nell’individuo operando nei suoi confronti come una gigantesca macchina pedagogica. 
(da: L. Pellicani, La sociologia, coscienza critica della Modernità, 1988 – Testo utilizzato per motivi pedagogici da: I. Cantoni, La civiltà cristiana come atto d’amore verso i «poveri» e i «piccoli», Cristianità n. 386 - 2017).

Secolarizzazione
Certo, grazie alla secolarizzazione, gli europei sono usciti dallo stato minorile, si sono emancipati dalla tutela del sacerdotium (il potere spirituale del clero) e del regnum (il potere temporale dei principi) e sono riusciti a istituzionalizzare lo Stato costituzionale, la democrazia rappresentativa e quel sistema di libertà e di diritti che ha permesso la nascita della figura del cittadino. Ma può la secolarizzazione espandersi illimitatamente senza intaccare la base ideologica che sostiene e alimenta la solidarietà sociale? La teoria sociologica ci insegna che la piena vigenza di un sistema di credenze e di valori vissuti acriticamente è il cemento spirituale di ogni società, ciò che trasforma un aggregato di individui in una comunità morale animata da un idem sentire
(da: L. Pellicani. Modernizzazione e secolarizzazione, 1997)

La credenza messianica
Strettamente legata alla visione millenaristica della storia e al tema escatologico della “fine dei tempi” è la credenza messianica. Questa non si limita a profetare l’avvento di una nuova era; essa indica anche l’”unto del Signore” – il Messia, per l’appunto – inviato ad annunciare e a realizzare la liberazione di coloro che soffrono sotto il giogo dei malvagi. Nella figura del messia si trovano concentrati, e con la massima purezza, i tratti tipici del portatore di carisma, così come sono stati magistralmente descritti da Max Weber. Straordinarie sono la sua personalità e la sua autorità morale poiché straordinaria è la sua missione. Egli sente di essere chiamato a rovesciare il “mondo rovesciato” affinché la promessa di salvezza si materializzi e la realtà si conformi alla volontà divina. Il suo ruolo escatologico, pertanto, non è solo religioso, ma anche politico-sociale. Egli è l’impersonale strumento di cui Dio si serve per porre fine allo stato di cose esistente, nel quale i giusti vivono con la dolorosa coscienza — e con il risentimento che tale coscienza genera spontaneamente — di essere vittime di intollerabili soprusi. La redenzione che egli promette, sulla base di una precisa diagnosi-terapia dei mali che infestano il mondo, è una liberazione terrena oltre che una rigenerazione spirituale. 
(da: L. Pellicani, Dall’Apocalisse alla Rivoluzione, in: Le rivoluzioni: miti e realtà, 2019).

Radici pagane e speranza cristiana
Per Ratzinger, l’essenza del pensiero cristiano si cristallizza nell’idea che «non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia che in definitiva governano il mondo e l’uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cioè l’universo; non le leggi della materia e dell’evoluzione sono l’ultima istanza, ma ragione, volontà, amore – una Persona. E se conosciamo questa Persona e Lei conosce noi, allora veramente l’inesorabile potere degli elementi materiali non è più l’ultima istanza; allora non siamo schiavi dell'universo e delle sue leggi, allora siamo liberi».
Poiché il presupposto della scienza è che tutti i fenomeni osservabili debbono essere spiegati proprio in termini di leggi naturali ed elementi materiali, senza alcun riferimento ad esseri soprannaturali, questa interpretazione del cristianesimo si palesa come intrinsecamente antiscientifica. 
[…] Non è una posizione nuova, ma perché ribadirla proprio ora con la forza di un’enciclica? La lettera papale deve essere interpretata con un occhio ai temi scottanti del momento. In particolare, al dibattito sulla laicità degli Stati, sulle radici culturali dell’Europa e sulle biotecnologie. Leggendo la Spe Salvi ho avuto la forte impressione che il Pontefice stesse rispondendo innanzitutto al libro di Luciano Pellicani, Le radici pagane dell’Europa. Impressione avvalorata dalla dichiarazione rilasciata alla stampa da Ratzinger il giorno successivo alla pubblicazione dell’enciclica: «Contro il paganesimo dei nostri giorni riscopriamo la bellezza e la profondità della speranza cristiana». Con questa frase, intendeva illustrarne il messaggio centrale. 
(da: R. Campa, Ratzinger contro Bacone, MondOperaio 3/4 2008). 

Tra i molti e autorevoli commenti scritti in memoria di Luciano Pellicani ho potuto leggere testimonianze riferite a tratti etici della sua personalità, alla speranza laica ed umanitaria, alla disposizione alla convivialità, al dialogo, alla solidarietà e all’aiuto alle persone in difficoltà; tratti che hanno portato qualche suo amico, anche negli ambienti ecclesiali, a considerarlo praticamente cristiano. A questo proposito si può leggere su L’Opinione la testimonianza di L. Leante posta a conclusione di una lunga scheda commemorativa della figura e dell’opera del professore:

Voglio concludere testimoniando un aspetto umano – ma anche culturale – di Luciano Pellicani. Nonostante il suo anticlericalismo e anticristianesimo ideologico, erano fortemente cristiani sia il suo socialismo, sia il suo liberalismo, sia le sue stesse critiche – di carattere soprattutto etico – al cristianesimo teologico e all’azione pratica della Chiesa (si veda per esempio il suo pamphlet Le radici pagane dell’Europa). Essi grondavano tutti di etica cristiana e di carità cristiana che tra l’altro praticava con i fatti. Quando, per esempio, Luciano veniva a sapere che un suo amico era ammalato o necessitava di un qualche sostegno, ne diveniva un assiduo e quasi quotidiano visitatore e si prodigava in tutti i modi. Era molto più cristiano di tanti “cristiani”. Ma quando glielo facevo notare si arrabbiava.

Sui portali della LUISS e di RAINEWS 24 si possono leggere altre testimonianze ufficiali. 
Una buona disamina dei libri scritti da Luciano Pellicani si può fare sui portali di IBS e di Rubbettino Editore, oltre che nel Catalogo delle Biblioteche Universitarie.